
La stagione di basket NBA è appena iniziata e, anche senza essere dei grandi appassionati ci si accorge ogni anno di più – guardando qualche azione di una partita qualsiasi – di come le squadre impostino il proprio gioco per concludere l’azione con un tiro da 3 punti, cioè quel tiro effettuato fuori dall’arco dei 7,25 metri disegnato a terra. Il tiro da 3, introdotto per la prima volta nella stagione 1979-80, è stato a lungo tempo una sorta di “arma speciale”, utilizzata dai giocatori particolarmente dotati nel tiro dalla lunga distanza, o da squadre alla ricerca di una disperata rimonta negli ultimi minuti di gioco, e utilizzato solo sporadicamente. Oggi, invece, il tiro da 3 – con l'influenza di Stephen Curry, uno dei migliori tiratori della storia – è il cuore di gran parte delle azioni d’attacco in NBA, continuamente discusso sui social e nei talk-show "baskettari" tra chi sostiene che si stia tirando troppo da 3 e chi ritiene che sia questo il giusto progresso del gioco. I 38 tiri da 3 a partita della stagione 2024/25 rispetto ai 16 di 20 anni fa, non sono solo una questione di “bel gioco” o di moda: è una vera rivoluzione che passa per la matematica e la tattica.
Quando il basket abbracciò la scienza: la rivoluzione del tiro da 3 punti
Per capire come siamo arrivati a questa rivoluzione del gioco bisogna tornare ai primi anni 2000, quando il progresso tecnologico e i primi “big data" iniziarono silenziosamente ad intervenire nelle decisioni tecniche delle principali franchigie di NBA, con statistiche avanzate che misero in discussione le decisioni tattiche degli allenatori.
Il principale protagonista di questa trasformazione fu Daryl Morey, general manager degli Houston Rockets, laureato al MIT e convinto che nel basket, come nella finanza, si potesse vincere sfruttando i numeri. Le sue analisi mostrarono qualcosa di apparentemente scontato ma rivoluzionario se avvalorato dai dati: un tiro da 3 punti vale il 50% in più di un tiro da 2, un’enormità, e anche se viene sbagliato più spesso, è in grado di produrre più punti nel lungo periodo rispetto a un tiro da 2 segnato con frequenza.
I dati erano chiari: con il passare degli anni, la percentuale di tiri da 3 segnati in una partita si era attestata attorno al 35%. Se quindi una squadra segna poco più di tre tiri da 3 su 10, ottiene in media 1,05 punti per tiro. Con un tiro da due realizzato invece nel 50% dei tentativi, si genera 1 punto esatto per ogni tiro tentato, ma la media realizzativa dei tiri da 2 in realtà è leggermente inferiore, tra il 45% e il 48%, per cui ogni tiro da 2 genera in media 0,95 punti. La differenza sembra minima, ma su decine di possessi fa può fare differenza tra vincere e perdere una partita.
L’esplosione delle triple e l’influenza di Steph Curry
Questo nuovo meccanismo di gioco basato sul tiro da 3 punti messo in pratica dagli Houston Rockets a partire dalla metà degli anni 2000 si diffuse rapidamente, e in molti iniziarono a parlare di “Moreyball” (dal celebre libro uscito nel 2003: Moneyball) riferendosi a chi iniziava a seguire lo stile di gioco dettato dalla franchigia texana. Le squadre iniziarono a costruire roster basati sui tiratori, ad allargare il gioco e a cercare sempre il tiro più “efficiente”: o una tripla, o una conclusione da sotto canestro. Tutto ciò che stava nel mezzo, nella fattispecie il “tiro dalla media” che era stata una caratteristica di leggende del basket come Michael Jordan e Kobe Bryant, cominciò a essere considerato un puro spreco. Il gioco divenne polarizzato: o si tira da fuori, o da sotto canestro. Tutto ciò che sta nel mezzo diventa poco utile ai fini della vittoria.
A dare la spinta definitiva verso questo nuovo modo di impostare il gioco ci pensò, a partire dai primi anni ’10, Stephen Curry assieme ai suoi Golden State Warriors. Il tiro da 3 passò da tattica a spettacolo, con Curry che iniziò a segnare da distanze siderali con una semplicità disarmante. Nella stagione 2015-16, in cui vinse il premio come MVP all’unanimità, ha tentato in media più di 11 triple a partita, segnandole con oltre il 45% di precisione. Le difese, semplicemente, non erano pronte ad affrontare qualcosa di simile, ed ogni squadra iniziò a cercare il proprio Curry e cercare di tirare sempre di più da 3 punti per imitare il successo ottenuto da Golden State, che tra il 2015 e il 2019 raggiunse 5 Finals consecutive, vincendone 3.
Dalla stagione 2010-11 alla 2018-19 si passò da 18 tiri da 3 in media per partita a 32, con un incremento del 78% in soli 8 anni. Nella stagione 2024-25, in media le squadre hanno tentato poco meno di 38 tiri da 3 a partita. 20 anni fa, nella stagione 2004-05, erano 16, quasi il 60% in meno.
Un cambiamento che non riguardava solo le cifre ma anche gli interpreti che dovevano scendere sul parquet. I centri tradizionali come Shaquille O’Neal o Tim Duncan, che dominavano sotto canestro sfruttando forza e centimetri, dovevano essere anche dei buoni tiratori se volevano guadagnarsi il posto in quintetto. Al giorno d'oggi le squadre non cercano più solo di avvicinarsi al canestro, ma piuttosto cercano l’angolo migliore per liberare un tiratore. I coach parlano sempre più spesso di “spacing”, cioè l’arte di distribuire i giocatori nella metà campo avversaria in modo che ogni difensore debba coprire più spazio possibile.
L’altra faccia della medaglia: spettacolo o monotonia?
Questa evoluzione ha reso il basket più veloce e più “matematico”, ma non tutti la considerano positiva. Molti ex giocatori e allenatori storici – come Charles Barkley o Gregg Popovich – sostengono che il gioco stia diventando ripetitivo, che tutte le squadre giochino allo stesso modo e che l’NBA sia diventata una grande gara di tiri da 3. Altri, come Steve Kerr, allenatore dei Golden State Warriors e della nazionale statunitense, ritengono che questa sia la corretta evoluzione del gioco del basket. Anche i fan si dividono tra chi apprezza la velocità del gioco moderno e chi preferisce un gioco più attivo sotto canestro, ricco di duelli individuali e fisici. Come spesso accade, l’evoluzione non soddisfa tutti, ma questa volta le lamentele degli appassionati sono arrivate fino ai vertici dell’NBA.
I dubbi della NBA e le possibili soluzioni
La lega, dopo aver ascoltato le opinioni dei detrattori del nuovo stile di gioco, teme che un eccesso di triple possa ridurre la varietà tattica, rendere le partite monotone e, di conseguenza, perdere pubblico, in un periodo in cui la NBA è già in grande difficoltà nella battaglia dell’audience contro football (NFL) e baseball (MLB).
Tra le ipotesi di cui si vocifera per evitare che i tentativi da 3 in una partita raggiungano il 50% di tutti i tiri tentati, si è parlato anche di allontanare ulteriormente la linea da 3 punti (oggi è a 7,25m, contro i 6,75m del basket europeo e delle competizioni FIBA) o di inserire un nuovo tiro da 4 punti, o addirittura di allargare il campo per creare più spazi di inserimento, ma per ora queste suggestioni restano tali.
Lo stesso Adam Silver, commissario NBA da oltre 10 anni, ha smentito che tali soluzioni possano essere messe in pratica nel breve termine, concentrandosi piuttosto sul tentativo di mantenere attrattiva l’NBA anche durante la regular season e non solo durante le Finals, con i recenti stravolgimenti dell’All Star Game, che da anni sta perdendo interesse, e l’inserimento della NBA Cup, un torneo intermedio che si tiene tra novembre e dicembre.
La soluzione, per ora, la stanno cercando le squadre che non possono permettersi di tirare continuamente da oltre l’arco dei 3 punti, riportando spesso in auge il tiro dalla media distanza sfruttando gli spazi che le difese moderne concedono.