L'intelligenza artificiale sta facendo passi da gigante, ma in cosa si differenzia realmente dalla nostra intelligenza umana? Sorprendentemente non è chiaro quanto le euristiche della nostra mente siano differenti dal funzionamento statistico dei modelli generativi AI. La struttura neurale artificiale e quella del nostro cervello presentano molte similitudini e qualche decisiva differenza. Ciò che senza dubbio ci differenzia è la dotazione di un corpo selezionato per evoluzione naturale, spinto alla riproduzione e alla sopravvivenza in un mondo fisico nel quale ci sono sfide complesse che richiedono i sensi per essere affrontate.
Spesso si sente dire che l’intelligenza artificiale, a differenza di quella umana, è capace di compiere calcoli complessi e analizzare enormi quantità di dati. In realtà, questa è una caratteristica anche (e per ora soprattutto) del cervello umano. Certo, se cerchiamo di competere su calcoli matematici, andremo poco lontano, ma pensate ai calcoli che il nostro cervello deve compiere per prendere al volo una pallina da baseball: mentre cerca di intuire la traiettoria della palla per sapere dove arriverà si prodiga in complessissimi aggiustamenti di ogni parte del corpo coinvolta nel movimento che servirà a trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Per fare questo non basta “azzeccare” dove arriverà la pallina, ma il nostro cervello ha bisogno di monitorare ogni cambiamento che avviene secondo dopo secondo, per aggiustare la predizione e ricalibrare i segnali nervosi e i movimenti dei muscoli. Un calcolo decisamente non da poco.
Durante gli anni ’50 e nei decenni successivi, c’era la comune opinione da parte degli esperti dell’intelligenza artificiale che sarebbe stato molto facile riprodurre con una macchina tutto ciò che aveva a che fare con il corpo e con il movimento, mentre molto più difficile sarebbe stato imitare il ragionamento umano. Infatti, a pensarci bene, la fantascienza immaginava con grande facilità un mondo prossimo nel quale gli umani avrebbero convissuto con robot umanoidi, talvolta poco intelligenti ma abili nei movimenti. Di contro, la vera sfida per i ricercatori sembrava essere la creazione di “macchine pensanti”, che potessero ingannare gli interlocutori facendogli credere di parlare con un umano, o che si dimostrassero virtuosi in ciò che rende l’umano “speciale”: gli scacchi, il go, la scrittura di poesie o romanzi, ovvero nel ragionamento e nella creatività. Il paradosso di Moravec ribalta la prospettiva, e mette in luce questa contraddizione secondo la quale, alla prova dei fatti, le abilità di movimento e di sensazione umana siano le abilità umane più difficili da simulare e riprodurre artificialmente, mentre le attività di alto livello (tipicamente le abilità mentali associate al ragionamento) sono meglio formalizzabili attraverso algoritmi, e richiedono meno potenza di calcolo.
Generalmente associamo l’intelligenza alla bravura nelle arti, nelle scienze, negli scacchi o nella matematica. Difficilmente esclamiamo “quella è una persona intelligente” quando osserviamo una tuffatrice vincere la medaglia d’oro alle olimpiadi. È interessante notare però che il meccanismo neurale sottostante che rende una persona un grande matematico o il migliore dei nuotatori è pressoché lo stesso: hanno entrambi bisogno di specializzare una grande quantità di neuroni in uno specifico compito. Quando ci dedichiamo con passione e dedizione ad una attività, il nostro cervello applica le proprie capacità di calcolo all’attività intrapresa, accendendo le aree del cervello che dedicate al ragionamento logico nel primo caso, alla percezione e al movimento nell’altro. Ciò che succede dopo è relativamente simile: allenando specifiche abilità le popolazioni di neuroni che si attivano iniziano a specializzarsi sempre di più, reclutano materia cerebrale ulteriore per aumentare la capacità di calcolo totale e aumentano i collegamenti tra i neuroni. Ecco che l’intelligenza, vista da questa prospettiva, diventa un concetto fumoso, sfuggente. Le costanti di quasi ogni capacità straordinaria sono costanza e dedizione.
Per le AI è un po’ diverso, la loro costanza dipende dall’energia disponibile, che di solito è continua e regolare, e la dedizione è solo un fatto di tempo. Non c’entra la motivazione, non c’è la fatica, ma solo algoritmi che portano avanti sequenze logiche che, al loro termine, attivano altre sequenze logiche, sino a generare l’output desiderato.
Semplificando molto, le reti neurali artificiali sono particolari tipi di modelli matematici ispirati, nella loro funzione e nella loro struttura, ai neuroni del nostro cervello. È la stessa architettura che troviamo sotto ai modelli di AI generativa come ChatGPT, Claude e Llama, i software più conosciuti al momento. Queste architetture sono costituite da nodi, al pari dei nuclei cellulari dei nostri neuroni, e da collegamenti tra i nodi, proprio come gli assoni e dendriti che collegano tra loro le nostre cellule cerebrali. Le similitudini non terminano qui: sia i neuroni artificiali che i neuroni cerebrali hanno una soglia di attivazione che, se superata dalla carica elettrica in entrata, genera una scarica elettrica in uscita. Il risultato è che solo i segnali che superano una certa soglia riescono a propagarsi nelle reti. Da qui in poi le analogie si fanno meno strette, soprattutto per quanto riguarda una delle caratteristiche fondamentali del nostro cervello, che lo rende flessibile e riadattabile ai vari problemi del mondo reale: la neuroplasticità. I collegamenti tra i nostri neuroni sono dinamici, possono subire un processo di potatura quando poco utilizzati, o possono crearsi di nuovi quando una certa popolazione di neuroni prossimi tra loro è particolarmente attiva durante lo stesso lasso di tempo (processo chiamato sinaptogenesi). Vien da sé che, senza un intervento esterno, una rete neurale artificiale non può modificare la propria struttura. Gli ingegneri informatici hanno però trovato un modo per far sì che, nonostante l’incapacità di modificarsi strutturalmente, la rete possa imparare dai feedback e dai database sui quali viene allenata. I nodi, infatti, possono modificare il loro peso, ovvero il valore numerico che ne condiziona la forza, cosicché ad una forza del nodo maggiore corrisponderà una maggiore influenza del nodo sui nodi successivi. È un po’ come se ci fosse un gestore del traffico di informazioni che decidesse, a seconda di quanto l’output è giusto, quali strade devono diventare autostrade e quali invece devono limitarsi ad essere stradine di campagna.
La realtà è che i filosofi dell’IA non sono d’accordo nell’affermare che le due intelligenze siano davvero differenti nel loro funzionamento di base, forse proprio perché definire l’intelligenza è già un problema filosofico irrisolto, o perché ci manca il passaggio che collega la “danza dei neuroni” alle manifestazioni della mente. Su un paio di cose possiamo però essere sicuri: noi siamo dotati di un corpo organico che fornisce un’infinità di feedback di diversa natura al nostro cervello, tanti feedback quanti sono i sensi (contando anche equilibrio, interocezione – la percezione degli organi interni – e propriocezione – la percezione del proprio corpo-) e che questo lavoro di processamento del mondo esterno filtrato dalla nostra percezione è un complessissimo risultato della selezione naturale, che ha modificato i nostri organi sensoriali, ha modellato il nostro corpo e, di conseguenza, le possibilità di azione e percezione. Noi non abbiamo dietro un ingegnere che decide razionalmente l’architettura del nostro hardware o del nostro software, ma ci “autocostruiamo” seguendo i comandi scritti nel nostro patrimonio genetico, che ogni tanto si mescola per via della riproduzione sessuale o si modifica a causa di errori di trascrizione o mutazioni. Questo significa che la nostra intelligenza è plasmata dalla selezione di miliardi di anni di vita sulla terra, nella quale è stata e continua ad essere messa a dura prova dai pericoli presenti nel nostro pianeta. La strategia dei nostri geni e del nostro sviluppo è stata quella di selezionare un organo flessibile, che riesca ad adattarsi alla maggior parte dei contesti per riuscire a sfidare ogni problema si ponga davanti. Questo, per ora, l’intelligenza artificiale non è in grado di farlo, e si rassegna a svolgere (molto bene) solo i compiti per cui è stata pensata.