
Nel 1924, lo storico Luigi Schiaparelli rinviene alla Biblioteca Capitolare di Verona l'indovinello veronese, un testo scritto sul margine di un altro documento: si tratta di un piccolo enigma, scritto da un amanuense sconosciuto, tra l'VIII secolo e l'inizio del IX, in forma di annotazione in una forma di italiano volgare, che racconta di buoi che muovono l'aratro in un campo bianco e spargono un seme nero
Non si capisce subito a cosa alluda quel testo, sicuramente un po’ criptico, ma Schiaparelli, grande esperto di paleografia – la scienza grazie alla quale si leggono, datano e contestualizzano i documenti antichi – e diplomatica – disciplina che studia e accerta l’autenticità dei documenti, per determinarne il valore come testimonianza storica – si rende conto in fretta di essere davanti a qualcosa di prezioso. La datazione tra l'VIII e il IX secolo d.C rende il documento la prima forma di italiano volgare, l'antenato della lingua che parliamo oggi.
La storia dell’indovinello: chi lo ha scritto come è arrivato fino a noi
Quel testo di certo non appartiene più al latino: lo studioso si occupa della sua datazione, e scopre essere precedente al Placito Capuano, datato 960 d.C. e considerato, fino a quel momento, la forma di italiano più antico. Il testo è poi accompagnato da una nota in latino puro, scritta però da un’altra mano, una sorta di invocazione sacra: “Gratias tibi agimus omnipotens sempiterne Deus”, cioè "Ti rendiamo grazie, Dio onnipotente ed eterno".
L’indovinello, infatti, viene collocato tra l'VIII e il IX secolo d.C, periodo in cui è stato composto – o forse trascritto – da un amanuense ignoto. La provenienza della pergamena è Toledo, in Spagna, poi è stato portato a Cagliari, ha raggiunto Pisa e poi Verona. Secondo Schiaparelli non ci sono dubbi: siamo davanti alla prima forma di lingua romanza in forma volgare, ovvero la forma di italiano antico più vicina a quella che parliamo oggi. Ma cosa significano quelle brevi frasi, che parlano di buoi, di un aratro, di un campo bianco e di un seme nero?

Cosa racconta l’indovinello veronese e la sua traduzione in italiano
Due anni dopo il rinvenimento del testo Vincenzo de Bartholomaeis, professore di storia comparata e di letterature neolatine all’Università di Bologna, cita il testo dell’indovinello a lezione:
Se pareba boves / alba pratalia araba / et albo versorio teneba / et negro semen seminaba
che in italiano corrente si può tradurre così:
Teneva davanti a sé i buoi / arava bianchi prati / e aveva un bianco aratro / e un nero seme seminava
Secondo quanto testimoniato dal professore stesso, fu una studentessa del primo anno di nome Liana Calza a trovare la soluzione. Cosa suggerì Liana?
La soluzione dell’indovinello veronese
Liana Calza – che si laurea poi nel 1930, secondo quanto riportato dall’archivio storico dell’Università – conosceva la soluzione dell’indovinello perché era una filastrocca popolare che aveva imparato da bambina.
L'indovinello veronese è una metafora della scrittura, paragonata al lavoro del contadino. I buoi rappresentano le dita, i prati bianchi le pagine, l'aratro la penna d'oca e il seme nero l'inchiostro. La pergamena con l’indovinello si può ammirare ancora oggi alla Biblioteca Capitolare di Verona, la biblioteca più antica del mondo ancora in attività.