
Basket e Matematica: due mondi apparentemente lontani che trovano la sintesi perfetta in Giampaolo ‘Pippo' Ricci. Classe 1991, nato a Roma, giocatore di basket professionista – Capitano dell'Olimpia Milano e punto fermo della Nazionale – non è solo un campione sul parquet, dove ha vinto ben 4 scudetti tra Bologna e Milano, ma anche sui libri, avendo conseguito una laurea in matematica coltivata tra un allenamento e l'altro. La sua carriera, raccontata nel libro Volevo Essere Robin, è un esempio perfetto di etica del lavoro, umiltà e pazienza. Il suo impegno va oltre il campo e lo studio: da alcuni anni ha fondato l'associazione benefica Amani Education ODV, con la quale ha costruito una scuola in Tanzania.
In questa intervista abbiamo provato a guardare lo sport con i suoi occhi, scoprendo che dietro a un canestro c'è molta più scienza di quanto sembri: parleremo dell'equazione della parabola per il tiro perfetto, di come la tecnologia sta cambiando gli allenamenti e del rapporto tra nutrizione e performance.
Pippo, partiamo da qui: sei un atleta di altissimo livello, capitano dell'Olimpia Milano e punto fermo della Nazionale, ma hai una laurea in matematica. Come hai fatto a conciliare questi due mondi, che spesso si escludono a vicenda?
Non è stato facile. Diciamo che la mia carriera è stata diversa dalle altre: nelle giovanili non ero il "Golden Boy", quello destinato alla Serie A. I miei genitori mi hanno sempre trasmesso l'importanza della scuola: prima il dovere, poi il piacere. Quando ero scout, mi diedero come "totem" – nome simbolico – Ippopotamo Curioso. Io speravo in un'aquila o un leone, e invece… ippopotamo. Però "Curioso" mi definiva bene: a scuola mi piaceva stare attento.
Perché hai scelto matematica?
Ho scelto di fare matematica alla Sapienza di Roma quasi per un motivo logistico: era l'unica facoltà che non aveva obbligo di frequenza la mattina, quando mi allenavo. Poi mi sono spostato a Pavia. Studiavo nei ritagli di tempo, magari un'ora al giorno, ma con costanza. Per me era un dovere verso me stesso: non sapevo dove sarei arrivato col basket, ero un ragazzino in Serie B, e coltivare lo studio era fondamentale.
Pensi che se non avessi continuato gli studi saresti arrivato dove sei ora? La laurea ti ha dato una marcia in più anche come atleta?
Forse senza lo studio non sarei arrivato qui. Vedo molti colleghi che vivono di solo basket: se la partita va male o si infortunano, crollano perché hanno solo quello. Per me lo studio è stato un’ancora di salvezza. Basket e matematica si sono autoalimentati. La matematica mi ha dato il metodo, la capacità di non abbassare la testa davanti a una "bocciatura" o a una sconfitta. Quando la domenica giocavo male, il lunedì aprivo i libri e la mia testa andava altrove, staccavo la spina dalla pressione. Mi sentivo quasi un "supereroe" con una doppia identità, e questo mi faceva scendere in campo più leggero mentalmente rispetto a chi aveva solo la palla a spicchi nella vita.
Nel basket c'è tantissima matematica nascosta: parabole di tiro, rotazioni, angoli di blocco, gestione dello spazio. Pensi che i tuoi studi ti abbiano aiutato a visualizzare meglio queste cose in campo? Non dico fare i calcoli mentre giochi, ma più come ‘forma mentis‘…
Assolutamente sì. C'è un aneddoto che racconto spesso: un professore di analisi, vedendomi bloccato su una funzione alla lavagna, mi disse: "Allontanati. Fai un passo indietro e guarda l'insieme". In campo faccio lo stesso. La forma mentis matematica mi aiuta ad avere tutto sotto controllo e a rimanere concentrato. Non calcolo l'angolo, ovvio, ma visualizzo le spaziature, so che se il playmaker guarda in una direzione io posso rubare un metro dall'altra. Conoscere le statistiche degli avversari – se vanno a destra o sinistra, le loro percentuali – mi dà sicurezza. È la regola del "controlla ciò che puoi controllare": se ho studiato tutto, l'ansia sparisce. È come andare a un esame preparato al 100%: sai che puoi passarlo.
C'è molta matematica anche nell'evoluzione del gioco. Se guardiamo i dati 20 anni fa si tiravano 16 triple a partita, oggi siamo a 38. Banalmente: un tiro da 3 vale di più, quindi statisticamente conviene. Tu quest'anno stai tirando con un pazzesco 40,4% da tre: ti sei dovuto adattare a questa ‘rivoluzione matematica' o è una dote naturale?
Ho dovuto lavorarci tantissimo. Ho capito che se non avessi messo il tiro da tre nel mio bagaglio, sarei stato un giocatore limitato e non avrei fatto carriera ad alto livello. È pura etica del lavoro. Ho passato estati intere a tirare 1000 volte al giorno. All'inizio pensi a tutto il movimento: piega le ginocchia, stendi il tricipite, spezza il polso. Poi, dopo averlo fatto migliaia di volte, diventa automatico. Oggi mi sento un giocatore molto migliore di due anni fa proprio grazie a questo lavoro.
Curiosamente, la matematica è proprio uno dei segreti dietro al mio miglioramento tecnico. Ho applicato al tiro un principio preciso: l'equazione della parabola. Ho capito che alzando l'arco della traiettoria, la probabilità che la palla entri aumenta.
[Quando un giocatore lancia la palla, la traiettoria che segue nell'aria è proprio un arco di parabola. L'equazione 𝑦 = 𝑎𝑥2 + 𝑏𝑥 + 𝑐 descrive la traiettoria parabolica della palla da basket; alzarne l'arco massimizza l'angolo di ingresso nel canestro, aumentando le probabilità di segnare. Se la palla arriva "dall'alto" (più verticale), il canestro offre la sua massima apertura circolare; se invece arriva piatta, il bersaglio utile si riduce a un'ellisse stretta, lasciando molto meno margine di errore.]

Passando dalla matematica alla tecnica: siamo nel 2025, quanto la tecnologia ha rivoluzionato il vostro quotidiano? Tra monitoraggio del recupero e prevenzione infortuni, quanto vi affidate ai dati?
Tantissimo. Per esempio abbiamo un GPS nei pantaloncini che traccia quanto corriamo. Sicuramente questi numeri aiutano lo staff a personalizzare il lavoro, ma solo tu capisci veramente come ti senti fisicamente. Se i dati dicono che sei in "riserva", ti fanno rallentare per evitare infortuni. A Milano l'organizzazione è maniacale: ogni giocatore ha la sua scheda, i suoi integratori, il suo programma pesi basato sui dati.
La cultura del lavoro è il tuo marchio di fabbrica ed è ciò che ti porta a definirti un ‘Robin'. Cosa significa per te interpretare questa figura?
Sì, mi piace molto la metafora di Robin, l'assistente di Batman. È quello che mette il suo ego da parte per far vincere la squadra, quello che fa il "lavoro sporco" per permettere a Batman di splendere. In una squadra di stelle, il mio compito è fare quelle piccole cose – un blocco, una difesa, un rimbalzo – che non finiscono sugli highlights ma che sono essenziali per la vittoria.
Sulla meccanica di tiro ho una curiosità "pop". Com'è possibile che atleti professionisti, che si allenano ore ogni giorno, a volte facciano 0/2 ai liberi o non prendano il ferro?
Diciamo che qui la matematica si ferma ed entra in gioco l'emotività. Un mio allenatore diceva che "la palla ha un'anima": sente se sei insicuro. Ho compagni che magari tecnicamente non sono perfetti, ma hanno un ego smisurato, si sentono i più forti del mondo e quindi segnano. Quando sei in lunetta, sei solo. Se hai paura di sbagliare, se il braccio trema, non c'è parabola o meccanica che tenga. Per segnare i liberi serve coraggio: Devi sfidare te stesso e convincerti che andrà dentro. È una battaglia più mentale che tecnica.
Restando sulla pressione e mettendo da parte i numeri. Sei capitano dell’Olimpia: oltre alla mente analitica, qui serve una parte molto emotiva ed empatica. Come gestisci questo equilibrio?
L'essere capitano per me è venuto naturale. Essere capitano per me non significa urlare o sfasciare lo spogliatoio. Il mio modo di essere leader è l'esempio e l'ascolto. È una responsabilità pesante, perché anche io ho le mie giornate no, le mie insicurezze. Ma sapere che la squadra e l'allenatore si fidano di me mi dà forza.
Anche nel tuo ruolo da capitano ti vedi come ‘Robin'?
Per me il capitano è un Robin elevato alla massima potenza. Il mio ruolo è essere il punto di riferimento per gli altri. Il capitano deve esserci per il giovane che gioca 5 minuti e si sente escluso, così come per il più esperto che ha bisogno di supporto o protezione. Significa avere la parola giusta per tutti, dare la carica nei momenti difficili e, soprattutto, dare l'esempio buttandosi su ogni pallone in campo.

So che la nutrizione è un tema a cui tieni molto. Ti va di raccontare brevemente la tua esperienza?
È un tema fondamentale. Da giovane ho avuto un rapporto difficile con il cibo: a 13 anni pesavo 121 chili, mi sentivo inadatto e mi vergognavo a mostrare il mio corpo. Ho sempre cercato di mascherare il mio malessere ma la svolta è arrivata solo quando ho chiesto aiuto. La prima volta che sono andato da un nutrizionista mi ha cambiato la vita. Mi ha insegnato che non devo mangiare meno, ma mangiare meglio. Nella mia vita sono passato dal mangiare troppo all'estremo opposto, privandomi di tutto, arrivando persino a cenare solo con il "bibitone" (bevanda proteica usata dagli sportivi, ndr).
Oggi conosco il mio corpo alla perfezione: so cosa mi serve per performare e so quando posso concedermi uno sgarro.
La carriera di un atleta professionista a un certo punto finisce. Pensi che in futuro sfrutterai la tua laurea in matematica per un lavoro diverso, o resterai nel basket?
Vorrei con tutto il cuore usare la mia laurea. Mi piacerebbe un lavoro "normale", magari in azienda, capire le dinamiche burocratiche o manageriali. Mi manca quella normalità che ho sacrificato, tipo un pranzo della domenica con la famiglia senza pensare alla partita. Non so se lo farò davvero, ma l'idea di rimettermi in gioco fuori dal campo mi affascina molto.
In tutto questo trovi il tempo per il progetto benefico "Amani Education" in Tanzania. Cosa ti sta lasciando quell'esperienza umana, lontana dai riflettori?
Il progetto "Amani Education" è nato quasi per caso, ma è diventato molto importante e stimolante. Ho capito che attraverso il basket e la mia immagine di giocatore posso fare del bene concreto. Andare lì mi riporta con i piedi per terra. Noi ci lamentiamo se l'hotel non è a 5 stelle o se il pranzo non è perfetto. Lì vedi persone a 4000 km di distanza che non hanno un tetto, faticano a fare anche solo un pasto al giorno, non hanno vestiti. Ti fa capire quanto siamo fortunati e ridimensiona tutti i nostri "problemi".
Per chiudere: che messaggio daresti ai ragazzi più giovani – ma forse anche ai loro genitori – che si trovano davanti al bivio ‘o lo sport o la scuola'?
Il mio messaggio è: fate più cose possibili. Siate curiosi, come il mio "ippopotamo". Solo provando capisci qual è la tua vera passione. E poi abbiate pazienza. I risultati non arrivano subito. Bisogna sbatterci la testa, perdere, rialzarsi. Non sognate solo in grande, lavorate sodo nel quotidiano. Se trovate quella cosa che vi fa dimenticare tutto il resto mentre la fate, allora coltivatela con tutto voi stessi.