
L’effetto Zeigarnik può essere considerato come un bias cognitivo secondo cui le persone tendono a ricordare maggiormente e con insistenza i compiti incompleti rispetto a quelli già terminati. Le attività incompiute generano una sorta di tensione mentale che ha come risultato quello di mantenerle “attive”; è per questo che la nostra mente ci tormenta fin quando non le portiamo a termine: concluderle vuol dire alleviare la tensione.
Avete presente quella fastidiosa sensazione che avvertite quando la puntata della vostra serie preferita finisce proprio sul più bello e non pensate ad altro che a sapere come andrà a finire? In narrativa questo espediente si chiama cliffhanger, ovvero finale sospeso: la trama si interrompe intenzionalmente in un momento di grande suspense o colpo di scena, lasciando lo spettatore in attesa della conclusione. Può succedere anche che pensiate costantemente ad una persona perché non siete riusciti a dirle proprio tutto quello che avevate in mente. Ecco, questo è l’effetto Zeigarnik e vi terrà compagnia con insistenza, fin quando non porterete a termine il compito.
La storia dell’effetto Zeigarnik
Siamo nella prima metà del Novecento: Bluma Zeigarnik, una psicologa lituana che stava conducendo degli studi sulla memoria umana, si trovava a cena in un ristorante molto affollato. Si rese conto che i camerieri riuscivano a tenere a mente un numero spropositato di ordinazioni, anche per molto tempo, fin quando non venivano completamente servite; una volta che i piatti arrivavano sulla tavola dei commensali, le richieste cadevano nel dimenticatoio. Incuriosita da questa osservazione, decise di effettuare un semplice esperimento a conferma della sua teoria: chiese a un gruppo di studenti di realizzare 20 attività consecutive (rebus, rompicapo, attività manuali, esercizi di memoria…) alcune delle quali potevano essere portate a termine, altre venivano sospese a metà dall’esaminatrice interrompendone di fatto la conclusione. Alla richiesta di ricordare gli esercizi che avevano svolto, i partecipanti ricordarono maggiormente le attività che avevano interrotto e non quelle terminate. Lo studio dimostrò quindi che quando non si conclude un compito, il pensiero ne invade la memoria (le attività completate, invece, si dimenticano più facilmente). La Zeigarnik ipotizzò che un’attività incompleta crea una tensione psichica che agisce come spinta a terminarlo e impedisce che la mente si concentri su altri processi cognitivi. Quest’ “ansia da completamento”, alimenta il trattenimento in memoria del compito incompleto.
Quindi, da un lato tendiamo a ricordare di più le attività o le informazioni non completate rispetto a quelle risolte; dall’altro, tendiamo a “chiudere il cerchio” e a terminare quanto prima l’incompleto per ridurre quel fastidiosissimo livello di tensione.
Come funziona e cosa succede nel nostro cervello
Quando iniziamo un’attività, il cervello mette in moto i circuiti dopaminergici della ricompensa e della motivazione; questi ci spingono a continuare quell’attività per ricevere la gratificazione a compito concluso. Appare intuitivo, quindi, che fin quando non portiamo a termine il compito, questa tensione motivazionale resta attiva come se fosse un file aperto. Se avviene un’interruzione, si genera una sorta di incongruenza: il cervello non riceve la gratificazione che si aspettava dal completamento dell’attività, non rilascia dopamina e di conseguenza ci sentiamo insoddisfatti. Così, la corteccia prefrontale tiene traccia del compito non concluso creando uno “spazio” cerebrale nella working memory e mantenendo quindi il pensiero attivo su di esso. L’amigdala e l’ippocampo (che fanno parte del sistema limbico), contribuiscono a rafforzarne il ricordo poiché un’informazione associata a una tensione o a un’emozione, ha una priorità mnemonica. Solo quando chiudiamo il compito, il cervello ci ricompensa con il rilascio di dopamina, regalandoci la sensazione di sollievo e liberando spazio nella mente. È per questo che un’attività lasciata a metà resta così vivida nella memoria e ci fa avvertire quel senso di insoddisfazione: il cervello non se ne libera finché non l’abbiamo portata a termine.
Da un lato, l’effetto Zeigarnik può essere un potente alleato: ci spinge a non lasciare le cose a metà, ci ricorda ciò che è rimasto in sospeso e ci dà la motivazione necessaria per portare a termine i nostri impegni. Dall’altro, però, ogni compito lasciato incompiuto rimane nella memoria di lavoro come una finestra aperta sullo schermo del cervello. Poche finestre sono facili da gestire ma se diventano troppe, l’attenzione si frammenta e si disperde; in quel caso ci sentiamo sommersi di “cose da fare”, riduciamo la nostra produttività e aumenta il nostro livello di stress.
L’effetto Zeigarnik nella vita quotidiana
L’effetto Zeigarnik non si manifesta solo quando non concludiamo un’azione concreta ma ci accompagna nella vita quotidiana anche quando, a rimanere inconcluso, è un pensiero o un processo mentale. Vediamo qualche esempio:
- Serie televisive: ebbene sì, quante volte vi è capitato di non riuscire a smettere di guardare una serie televisiva perché la puntata finisce sempre sul più bello? Si chiama cliffhanger, ed è una tecnica narrativa utilizzata in film, libri e serie TV che consiste nell’ interrompere la storia in un momento di grande suspense o colpo di scena, lasciando il pubblico in uno stato di incompiutezza e attesa della risoluzione (a causa dell’effetto Zeigarnik);
- Parole sulla punta della lingua: quando non riusciamo a ricordare un termine o un nome, la mente non si arrende e rimane bloccata su quell’informazione finché non la recupera;
- Memoria di nomi o volti: se non ricordiamo il nome di “quell’attore” del film che stiamo vedendo, ci sentiamo profondamente infastiditi e non ci diamo pace fin quando non lo troviamo su Google;
- Relazioni: se in un confronto con una persona non riusciamo a esprimere tutto quello che avremmo voluto, restiamo a rimuginare sulle frasi non dette quasi in maniera ossessiva; è la stessa cosa che può accadere con un partner. Quando una storia si interrompe senza che ci sia stata una chiusura definita, la mente richiama l’immagine di quella persona e ci spinge a pensarci di continuo fintanto che non si abbia la sensazione di aver chiuso il cerchio. (Spoiler: spesso non esiste una chiusura oggettiva e definitiva: la vera soluzione non è tanto nel ricevere risposte dall’altro, quanto nel dare un senso personale a ciò che è accaduto, accettando che alcune conversazioni rimarranno incompiute).
Strategie per affrontarlo e superarlo
Questo meccanismo fa parte del nostro funzionamento cognitivo, di conseguenza non è possibile eliminarlo del tutto; possiamo però ridurne almeno l’impatto:
- Scrivere: mettere nero su bianco pensieri, liste di cose da fare o emozioni irrisolte, aiuta a scaricare e liberare la memoria di lavoro;
- Obiettivi minimi: chiudere subito i compiti semplici o veloci e dividere in piccoli obiettivi quelli più grandi, evita di accumulare troppi “file aperti” e ci assicura comunque la sensazione di aver portato a termine ciò che ci eravamo prefissati, garantendoci comunque una gratificazione;
- Rituali di chiusura: inventare un gesto simbolico (una lettera non spedita, un diario, un segno di spunta su una lista), può dare la sensazione di aver concluso.
L’Effetto Zeigarnik ci ricorda che la nostra mente è programmata per cercare completezza: vuole chiudere cerchi, portare a termine ciò che ha iniziato, trovare un senso alle esperienze. Può motivarci e renderci più determinati, ma anche trasformarsi in un peso ingombrante quando ci sovraccarichiamo di compiti o pensieri incompiuti. La vera sfida sta nel distinguere cosa vale la pena concludere e cosa, invece, possiamo imparare a lasciare andare.