0 risultati

Ci sono popoli con solo 2 o 3 parole per chiamare tutti i colori esistenti: com’è possibile?

Alcune culture descrivono i colori con pochissimi termini essenziali, come “chiaro” e “scuro” per i Dani, o con decine di sfumature di bianco per gli Inuit. Non è una mancanza culturale, ma un adattamento alle priorità dell'esistenza quotidiana: il linguaggio dei colori riflette il loro modo pratico di vivere il mondo.

25 Novembre 2024
7:10
10 condivisioni
Ci sono popoli con solo 2 o 3 parole per chiamare tutti i colori esistenti: com’è possibile?
nomi dei colori diverse culture

Immagina un mondo dove i colori sono accorpati e ridotti a poche categorie: "chiaro", "scuro" e, al massimo, rosso. Ecco, questo mondo non è fantasia, ma una vera e propria realtà in alcune culture. Infatti, anche se le persone che appartengono a questi popoli (come i Dani della Papua Nuova Guinea o gli Inuit, ad esempio) sono in grado di percepire le diverse sfumature di colore, non hanno mai avuto la necessità pratica di dar loro un nome definito e quindi per loro non esistono magari il verde, l'azzurro o il marrone, ma solo una ridottissima quantità di termini sotto cui accorpano colori anche molto diversi tra loro, oppure magari hanno tantissime parole per definire in modo dettagliato le diverse tonalità di bianco. Secondo la maggior parte delle ricerche in ambito antropologico, infatti, la distinzione tra i colori e la loro classificazione dipenderebbe culturalmente soprattutto da ciò che serve nella vita di tutti i giorni. Approfondiamo la questione e vediamo alcuni esempi.

Diverse culture "vedono" e chiamano i colori del mondo diversamente

Un esempio di popolo che ha una nomenclatura dei colori ridottissima sono i Dani della Papua Nuova Guinea, che chiamano tutto ciò che è scuro, blu o verde "mili", e tutto ciò che è chiaro, bianco o giallo "mola". Per loro, avere una parola per ogni colore non è una priorità, eppure questo non significa che concretamente non vedano le diverse sfumature: semplicemente, non le ritengono importanti da nominare.

I Dani non solo però gli unici ad avere un ristretto vocabolario per i colori. Altre culture, come gli Himba della Namibia, hanno un approccio altrettanto sorprendente. Gli individui di questo gruppo etnico non distinguono infatti tra blu, verde o giallo, mentre invece hanno un’ampia varietà di termini per il marrone, essenziale per riconoscere le diverse sfumature del terreno o degli arbusti nel loro ambiente desertico.

Un altro esempio intrigante viene dagli Inuit, i quali non hanno una parola specifica per il rosso o per il blu ma possiedono decine di termini per il bianco, legati alle diverse condizioni della neve e del ghiaccio.

Immagine
Popolazione Inuit. Credits: Paul Kay e Brent Berlin

Tutti questi esempi ci portano a riflettere su un concetto fondamentale: ogni cultura sviluppa il proprio linguaggio cromatico in risposta alle necessità concrete e alle priorità del contesto in cui vive.

In altre parole, le lingue non si evolvono in modo uniforme o universale, ma si modellano in base agli aspetti più significativi per quella determinata comunità. Ciò che è essenziale per la sopravvivenza, per la comunicazione, o per le pratiche quotidiane di una cultura, tende ad essere espresso con termini precisi e articolati. Al contrario, altri aspetti della realtà che non sono percepiti come cruciali possono rimanere indefiniti o essere accomunati sotto pochi termini generali come "scuro" o "chiaro".

Il relativismo linguistico e la percezione del colore

Queste osservazioni trovano una cornice più ampia nelle teorie dagli antropologi Paul Kay e Brent Berlin negli anni '60, i quali hanno esplorato il modo in cui le lingue umane codificano il colore. Attraverso un ampio studio comparativo di lingue provenienti da diverse regioni del mondo, Berlin e Kay hanno infatti individuato uno schema universale nell'evoluzione del linguaggio cromatico, conosciuto come la teoria dei colori universali.

Secondo questa teoria, le lingue che possiedono un numero limitato di termini cromatici tendono a organizzare i colori in due categorie principali: chiaro e scuro. Con il progressivo sviluppo della complessità linguistica, emergono categorie più specifiche, come il verde, il blu e il marrone, fino ad arrivare a lingue che possiedono un vocabolario cromatico estremamente ricco e differenziato.

Questo schema, noto come "scaletta di Berlin e Kay", suggerisce che l'evoluzione del linguaggio cromatico non è dettata esclusivamente da fattori biologici o fisiologici (come la capacità di distinguere tra colori) ma, piuttosto, è influenzata dalle necessità culturali e sociali delle diverse popolazioni.

Ad esempio, alcune culture che vivono in ambienti naturali ricchi di varietà cromatiche potrebbero sviluppare una terminologia più complessa per descrivere le sfumature di verde o marrone, mentre altre, con un contesto ambientale diverso, potrebbero non distinguere tra tali colori, ma concentrarsi sulle sfumature di giallo, come nel caso dei Berinmo.

Ma alla fine, è davvero necessario avere tutti questi colori?

Le diverse lingue cromatiche ci mostrano come il linguaggio non sia solo un mezzo di comunicazione, ma anche un riflesso delle priorità, delle esperienze e della cultura di chi lo usa. Se per noi il mondo è ricco di sfumature, altre società lo vedono attraverso una palette più semplice ma altrettanto significativa. Quello che per noi potrebbe sembrare un “mancare” di dettagli, in realtà rappresenta un modo diverso e altrettanto valido di interpretare e valorizzare la realtà.

In un'epoca in cui cerchiamo di categorizzare ogni cosa e di analizzare la realtà in ogni dettaglio, queste differenze ci ricordano che non sempre "più significa meglio". Talvolta, un linguaggio più essenziale può risultare più profondo e in sintonia con le vere priorità della vita quotidiana.

Fonti
Sfondo autopromo
Cosa stai cercando?
api url views