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Il diritto all'oblio nasce per proteggere l'identità e la reputazione dei singoli individui da informazioni presenti online che, pur vere al momento della pubblicazione, non rappresentano più la situazione attuale della persona. Non si tratta, però, di cancellare la loro storia dal Web, ma di regolare l'accesso a dati personali obsoleti quando digitati nei motori di ricerca. Il diritto all'oblio, infatti, non elimina il contenuto dai siti Web, ma impedisce che appaia facilmente tra i risultati delle ricerche online associate al nome e cognome dei singoli soggetti. È una risposta giuridica al bisogno crescente di non restare prigionieri del proprio passato digitale, specialmente quando i fatti sono stati superati e si sono evoluti o risolti.
È possibile esercitare questo diritto anche se si è stati coinvolti direttamente nella diffusione della notizia, per esempio tramite un'intervista o un post pubblico sui social. Ma non tutti possono farlo valere e in ogni caso occorre distinguere tra notizie obsolete, ancora attuali e di interesse storico. Per ottenere la deindicizzazione, bisogna rivolgersi all'editore della testata che ha pubblicato l’articolo e/o al motore di ricerca, che fornisce moduli appositi per inoltrare la richiesta. In alcuni casi, è anche possibile chiedere un aggiornamento della notizia con una nota che riporti eventuali sviluppi successivi. Ma attenzione: non si può pretendere l'eliminazione totale della notizia né la sua alterazione tramite anonimizzazione.
Cos'è il diritto all'oblio
Il diritto all'oblio affonda le sue radici nel bisogno di equilibrare due diritti fondamentali: quello all'informazione, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, e quello alla protezione della vita privata, garantito dall'articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (nota anche come “Carta di Nizza”). Questo bilanciamento è diventato particolarmente necessario nel momento in cui l'informazione digitale, facilmente accessibile e praticamente permanente, ha cominciato a incidere in modo significativo sulla reputazione delle persone comuni. Da qui, l'evoluzione delle normative — in particolare delle corti europee — ha portato all’affermazione di un diritto specifico, poi formalizzato nel Regolamento generale sulla protezione dei dati o GDPR (General Data Protection Regulation).
Ciò che è concesso tramite il diritto all’oblio non è la cancellazione pura delle informazioni presenti nei siti Internet, ma piuttosto la loro deindicizzazione. Questo termine tecnico indica la rimozione dei collegamenti tra una pagina Web e i motori di ricerca. In pratica, la notizia rimane presente sul sito dell'editore che l'ha pubblicata, ma non è più accessibile digitando il nome e cognome di una persona su Google o su motori di ricerca simili. È una forma di tutela mirata a limitare l'impatto sociale della notizia senza cancellarla dalla memoria digitale collettiva.
A stabilire se una notizia può essere considerata obsoleta è in genere un giudice, e questa valutazione varia caso per caso. I criteri più ricorrenti si basano sulla gravità del fatto riportato, sulla sua evoluzione nel tempo e sulla posizione pubblica del soggetto coinvolto. Ad esempio, un'indagine penale chiusa senza condanna può legittimare la richiesta già dopo due o tre anni. Se, invece, si tratta di una condanna definitiva, il tempo necessario potrebbe essere maggiore.
Quando una notizia è falsa, non serve attendere: va rimossa subito, in quanto costituisce una diffamazione o una violazione della privacy. Se la notizia non è di pubblico interesse, invece, va rimossa in quanto viola la privacy del soggetto.
Chi può esercitare il diritto alla cancellazione dei dati personali e come
È importante sapere che il diritto all’oblio può essere esercitato da chiunque, anche da parte di chi ha avuto una condanna. Se la situazione giuridica è cambiata — ad esempio con un’assoluzione in appello o in Cassazione — si ha il diritto di chiedere non solo la deindicizzazione, ma anche l'aggiunta di una nota aggiornata sugli articoli che hanno narrato i fatti e che rifletta l'attuale stato delle cose. Questo vale anche per chi ha avuto un ruolo attivo nella diffusione dell'informazione, come nel caso di dichiarazioni pubbliche o contenuti postati sui social: queste azioni non precludono la possibilità di richiedere il ricorso al diritto all'oblio in un secondo momento.
La procedura per attivare il diritto all’oblio prevede una prima fase di richiesta, che è possibile indirizzare al titolare del sito o della testata giornalistica. È preferibile farlo tramite strumenti a valore legale, come la PEC (Posta Elettronica Certificata) oppure la raccomandata con ricevuta di ritorno. Ci si può anche rivolgere direttamente al motore di ricerca interessato. Google e Bing, ad esempio, mettono a disposizione un modulo online ad hoc per presentare le richieste di deindicizzazione (lo trovate disponibile ai link appena forniti). La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha infatti stabilito che i motori di ricerca sono corresponsabili del trattamento dei dati personali indicizzati.

Va chiarito che non in ogni circostanza è possibile far valere il diritto all'oblio. Se la notizia è ancora attuale, se riguarda vicende di rilevanza storica o se è tornata d’attualità per sviluppi recenti, non è possibile chiederne la deindicizzazione. Pensate, ad esempio, al caso di un funzionario pubblico coinvolto in scandali del passato e ora di nuovo al centro dell'attenzione mediatica per un possibile nuovo incarico pubblico: in un contesto simile l'interesse collettivo prevale sulla riservatezza individuale.
Altra cosa che ci teniamo a ribadire: gli articoli deindicizzati non scompaiono da Internet. Rimangono consultabili tramite il sito del giornale online, anche se il loro impatto sulla visibilità pubblica del soggetto coinvolto viene significativamente ridotto. Questa soluzione consente di proteggere la reputazione individuale e al contempo non compromettere il diritto alla conservazione della memoria storica.