
Quello di Truddi Chase (1935-2010), un'autrice americana, è il caso più famoso di disturbo dissociativo di identità (detto comunemente "disturbo di personalità multipla"), una condizione patologica in cui una persona presenta due o più identità distinte che si alternano nel controllo del suo comportamento. È un meccanismo di difesa estremo che il nostro cervello mette in atto per fronteggiare il dolore provocato da traumi ripetuti. Nel caso di Chase, gli abusi sessuali e le violenze impartite dal patrigno portarono alla frammentazione della sua mente in ben 92 personalità differenti. La sua autobiografia, When Rabbit Howls, racconta l'esperienza della diagnosi e della convivenza con questo disturbo.
La storia di Truddi Chase, la scrittrice americana con personalità multiple
Truddi Chase nacque nel 1935 a New York. Dall’età di due anni e mezzo la sua infanzia fu sconvolta da ripetuti abusi sessuali, violenze fisiche e psicologiche da parte del patrigno e dalla completa assenza protettiva della madre. Per far fronte a questo dolore la sua mente cominciò a frammentarsi: nacquero le prime identità infantili (come Rabbit e Little Dusty), che prendevano il posto della Truddi cosciente per sopportare il dolore e dissociarsi completamente nei momenti di abuso. Man mano, la sua mente creò altri alter ego: alcuni arrabbiati, altri più accudenti, altri ancora erano socievoli o al contrario introversi e solitari. In età più adulta, Truddi aveva vuoti di memoria inspiegabili: trovava oggetti comprati senza ricordare di averlo fatto, lettere o appunti scritti con grafie diverse dalla propria o si ritrovava in posti senza sapere come ci fosse arrivata. Amici e familiari dicevano che a volte cambiava postura, addirittura accento linguistico e tono di voce.
Decise così di chiedere aiuto e iniziare un percorso di psicoterapia: mentre parlava con la terapeuta, emerse una voce diversa dalla sua. Poi ancora un’altra. E un’altra. Da lì iniziò a rendersi conto che i suoi “vuoti” avevano un senso: rappresentavano i momenti in cui “le Truppe” (così le chiamava), prendevano il controllo. Coesistevano in lei 92 personalità differenti: ognuna aveva un ruolo, una funzione e un carattere distinto; alcune furono create per affrontare la violenza, altre per continuare a vivere quando Truddi non ce l’avrebbe fatta. A quei tempi, quando si parlava di disturbo dissociativo di identità, l’obiettivo terapeutico era quello di integrare queste personalità fino a ricomporle in un’unica coscienza. Truddi fece una scelta diversa: quelle voci erano nate per salvarla da un dolore insopportabile, decise così di “non curarsi” e convivere con loro come "una famiglia interiore".
Cos’è il disturbo dissociativo di identità di cui soffriva Truddi Chase
L'infanzia è una fase durante la quale le aree del nostro cervello che dovrebbero fondere insieme memoria, emozioni e senso identitario, sono ancora in fase di sviluppo. Se un bambino subisce traumi ripetuti, la mente può adottare una strategia estrema ma, quantomeno, protettiva: invece di costruire un unico io coerente, lo “divide” in più parti creando identità separate aventi ricordi, emozioni e personalità specifici. Dal punto di vista neurobiologico, questo significa che circuiti come l’ippocampo e la corteccia prefrontale, che normalmente sono adibiti alla memoria autobiografica, “scelgono” di non integrare eventi traumatici; l’amigdala mantiene vivo un senso costante di allarme e paura. Così, al posto di un’unica storia, se ne creano tante: le “identità” o gli “alter-ego”. Come si traduce tutto questo nella vita quotidiana? Quando un’identità prende il controllo, le altre rimangono silenti e molto spesso non conservano memoria rispetto a quanto accaduto. All’esterno si possono notare cambiamenti nella postura, nel tono di voce, nella grafia, nel carattere e perfino nelle abilità: si sono registrate storie di alter-ego che avevano gusti alimentari diversi, che sapevano parlare lingue mai conosciute dall’identità primaria, generi sessuali ed età differenti, destrimani o mancini.
Il DID ad oggi, conta un’incidenza che si aggira tra l’1% e l’1,5% della popolazione generale, ma in contesti clinici specializzati la rilevanza è decisamente più alta, non considerando la sottostima clinica. Molto spesso si affianca ad altri disturbi come depressione, ansia e alto rischio autolesivo e suicidario. È perciò fondamentale il supporto specialistico con terapia farmacologica e psicologica che miri alla reintegrazione del sé.