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10 Luglio 2025
9:00

In California esistono delle case ispirate ai templi maya: il progetto di Frank Lloyd Wright

Negli anni ’20, Frank Lloyd Wright progettò quattro case in California con un innovativo sistema a blocchi di calcestruzzo decorati e prefabbricati. Tra le più famose c'è la Ennis House di Los Angeles: ispirate nell'estetica ai templi maya e uniche nel loro genere, queste residenze hanno lasciato un segno nell'architettura e nel cinema.

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In California esistono delle case ispirate ai templi maya: il progetto di Frank Lloyd Wright
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Ennis House. By Kyle Magnuson from Los Angeles, United States – CC BY 2.0,

Tra il 1923 e il 1924, Frank Lloyd Wright realizzò nella regione di Los Angeles quattro abitazioni straordinarie: la Millard House, la Storer House, la Ennis House e la Freeman House. Ad accomunarle è il metodo costruttivo sperimentale messo a punto dallo stesso Wright, architetto della celebre casa sulla cascata di Mill Run (Pennsylvania): il textile block system o sistema a blocchi intessuti. Il procedimento prevedeva l’utilizzo di conci prefabbricati in calcestruzzo, pieni e forati, decorati con motivi geometrici d'ispirazione precolombiana.

Con l’ausilio di matrici lignee, i blocchi venivano impilati uno sull’altro e "intessuti" con un ordito di barre in acciaio, verticali e orizzontali; nelle scanalature si versava poi della malta liquida per legare l’intera struttura. Ogni modulo standardizzato era progettato per essere sollevato e posato da una sola persona, permettendo un’assemblaggio semplice, veloce ed economico, senza ricorrere a manodopera specializzata. Una sorta di “lego” architettonico ante litteram, in grado di resistere a terremoti e incendi, e diventato iconico per la singolare estetica in stile Revival Maya. Le quattro case wrightiane sono infatti comparse in film e serie TV fra cui Blade Runner e Westworld, e hanno ispirato le scenografie di Game of Thrones.

Prefabbricazione a modularità: le case di Wright ispirate ai Maya

Dopo l’esperienza delle Prairie Houses, le "case nella prateria", la crisi del 1929 spinse Frank Lloyd Wright a esplorare soluzioni più economiche, sfruttando prefabbricazione e modularità per realizzare abitazioni accessibili ma esteticamente curate. Nacque così il textile block system, un modello di costruzione basato sulla sovrapposizione di blocchi standardizzati di calcestruzzo decorato, armati con una griglia di barre d’acciaio. Il sistema coniugava struttura e linguaggio formale in un’unica soluzione, tanto all’interno quanto all’esterno, ed era pensato per rispondere in modo efficace alle criticità del territorio californiano, soggetto a terremoti e incendi.

A differenza della muratura non armata, rigida, pesante e pertanto fragile in caso di sisma, il calcestruzzo armato offriva maggiore stabilità e resistenza al calore. Wright ne era perfettamente consapevole, poiché nel 1923 aveva appena completato l’Imperial Hotel di Tokyo, che resistette al devastante terremoto del Kantō. Nello stesso anno avviò la costruzione della Millard House a Pasadena, nota anche come La Miniatura, nella contea di Los Angeles. Tuttavia, come osserva il professor Edward R. Ford della Scuola di Architettura dell’Università della Virginia, questa casa non presentava ancora una struttura textile block pienamente matura: al posto del reticolato d’acciaio del calcestruzzo nervato, prevedeva una fuga di malta da ½ pollice rinforzata con metallo stirato. La prima vera textile block house, secondo i criteri costruttivi che Wright avrebbe poi sviluppato, sarebbe invece la Storer House (1923-24), situata al numero 8161 di Hollywood Boulevard, nel quartiere di Hollywood Hills a Los Angeles. Costruita su una ripida collina, immersa in un paesaggio lussureggiante che ne esalta l’esotismo, la casa appare come una rovina antica che affiora tra la vegetazione rigogliosa. Per realizzarla, Wright impiegò quattro diversi modelli di blocchi decorativi.

storer house case in blocchi di cemento textile block
Storer House, 8161 Hollywood Blvd, Los Angeles. By Los Angeles – Own work, CC BY–SA 3.0,

Nel perfezionare il sistema, Wright adottò una miscela composta da una parte di cemento Portland e quattro parti di sabbia e ghiaia, materiali reperiti direttamente in loco. In alcuni casi – come per le successive Ennis House e Freeman House – si ritiene che al calcestruzzo sia stata aggiunta anche terra del sito per ottenere una caratteristica tonalità ocra, in armonia con l'ambiente circostante. I blocchi venivano formati sotto pressione all’interno di casseforme metalliche lavorate e riutilizzabili, capaci di riprodurre con precisione qualsiasi tipo di texture decorativa. Risultavano più piccoli di 1/8 rispetto al modulo di 16 x 16 x 3.5 pollici degli stampi, così da lasciare spazio sufficiente per le scanalature lungo i bordi, dove venivano posate le barre d’acciaio, sia in senso orizzontale sia verticale. Queste venivano infine sigillate con malta a filo per proteggere l’armatura. Il sistema permetteva a Wright di realizzare direttamente in cantiere, senza manodopera specializzata e in tempi contenuti, pareti monolitiche, solide e impermeabili, prive di giunti e fughe in risalto.

Nella Ennis House (la più grande e scenografica delle quattro, e maggiormente ispirata nell'estetica ai templi maya) Wright, libero da vincoli di budget, sperimentò al massimo le potenzialità del sistema. Impiegò blocchi sfalsati per realizzare muri inclinati (battered walls) e utilizzò i blocchi intessuti non solo per le pareti, ma anche per pavimenti e soffitti. Questi ultimi, spiega il ricercatore architetto-ingegnere Edward D. Losch, fungevano da casseri a perdere per i getti in calcestruzzo armato, mentre colonne e travi venivano rivestite con blocchi decorativi, creando l’illusione di un sistema modulare continuo. Anche nella Freeman House, l’ultima della serie adagiata lungo un pendio di una delle colline di Hollywood, la struttura portante è costituita da blocchi riempiti di calcestruzzo, disposti a formare un sistema di travi e pilastri che si avvicina, per concezione, al telaio classico.

Ennis house case in blocchi di cemento textile blocks
Ennis House,  2655 Glendower Ave, Los Angeles. Foto Jeremy Thompson via Flickr

Perché sembrano templi maya?

Quando Frank Lloyd Wright arrivò in California nei primi anni ’20, trovò un ambiente culturale fortemente attratto dalle civiltà antiche e, in particolare, da quelle precolombiane. Non era un caso: l’eredità coloniale spagnola era ben radicata, così come le influenze provenienti dal vicino Messico e dall’America Centrale. A rafforzare questo interesse contribuì la Panama-California Exposition del 1915 a San Diego – evento celebrativo per l’apertura del Canale di Panama – che Wright visitò personalmente. Oltre agli edifici in stile coloniale spagnolo, la mostra presentava modelli e fotografie di architetture maya e azteche, offrendo al pubblico (e agli architetti) uno sguardo ravvicinato su un repertorio formale potente e fuori dal tempo.

Tra le fonti di ispirazione vi era all'epoca anche la figura di John Lloyd Stephens, esploratore e scrittore divenuto famoso per la scoperta dei resti archeologici dell'antica civiltà Maya, impresa documentata in Incidents of Travel in Central America, Chiapas and Yucatán. Di quelle rovine Wright ammirava la coerenza tra forma, materia e ornamento: un principio che cercò di reinterpretare in chiave moderna attraverso un’architettura “organica”, radicata nel contesto, e che fosse al tempo stesso decorativa, economica e funzionale sul piano strutturale. È in questo quadro che si inserisce l’adozione dello stile Mayan Revival, già molto in voga nell’America degli anni Venti e Trenta, e chiaramente riconoscibile nella Ennis House di Los Feliz a Los Angeles. Qui, i blocchi disposti a formare pareti inclinate, il podio a gradoni e le superfici ricche di bassorilievi, evocano, con forza scenica, la monumentalità di un colossale tempio maya.

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Hollyhock House.

Tuttavia, l’interesse da parte di Wright per l’iconografia delle culture mesoamericane precolombiane, in particolare per le piramidi dello Yucatan e i siti archeologici di Palenque e Uxmal in Messico, si era già manifestato in forma architettonica – pur senza l’utilizzo del textile block system – nella Hollyhock House (1918–1921), residenza iscritta nella lista UNESCO costruita sulla collina di Olive Hill, a Los Angeles. Considerata un’opera di transizione tra lo stile Prairie e le costruzioni modulari degli anni ’20, essa anticipa molte delle suggestioni, formali e simboliche, che troveranno piena espressione nelle textile block houses, a loro volta considerate un importante precedente per le Usonian Houses del secondo dopoguerra.

Criticità del Textile Block System

Nonostante l’audacia concettuale e la carica innovativa, il sistema textile block non si rivelò un successo né dal punto di vista economico dal punto di vista architettonico-costruttivo. L’idea di Wright di adoperare un modulo decorato prefabbricato, semplice da produrre, assemblare e movimentare, anche da parte di maestranze non esperte, si scontrò con numerosi ostacoli pratici. La standardizzazione, che avrebbe dovuto essere uno dei punti di forza del sistema, si rivelò quasi sempre impraticabile: ogni edificio richiedeva infatti decine di blocchi differenti per forma. Basti pensare alla Freeman House, che disponeva di sole due tipologie (una di modanatura e una ornamentale), e che arrivò a impiegarne ben 56 diversi, rendendo la procedura complessa e onerosa. Per questa casa, come ricostruisce Jeffrey M. Chusid nell'Historic Structure Report: Samuel and Harriet Freeman House del 1989, Wright aveva stimato l’impiego di 9.000 blocchi al costo di 30 centesimi ciascuno. In realtà ne furono utilizzati 11.000, a un prezzo quasi raddoppiato (66 centesimi l’uno), per un totale di 7.260 dollari: oltre 4.500 dollari in più rispetto al budget iniziale.

case blocchi di cemento textile block house
Samuel Freeman House, 1962 Glencoe Way, Hollywood, California. By Los Angeles – Own work, CC BY–SA 3.0

In cantiere, l’assenza di tolleranze dimensionali imponeva una precisione assoluta, difficile da raggiungere con i mezzi dell’epoca. Le giunzioni tra gli elementi non prevedevano malta tradizionale ma scanalature da costipare con boiacca cementizia per inglobare l’armatura in acciaio: giunti che risultarono spesso mal riempiti, compromettendo la rigidezza della struttura. I problemi più gravi emersero nel tempo, con infiltrazioni d’acqua, sfaldamenti, degrado del cemento e fessurazioni. Il calcestruzzo utilizzato – molto asciutto e realizzato con materiali non industriali e non controllati, come sabbia o argilla prelevati in cantiere – era eccessivamente poroso e assorbiva di conseguenza molta umidità. A incidere sulla scarsa efficienza termica e sui problemi di impermeabilizzazione furono anche le intercapedini, pensate per l’isolamento ma mal dimensionate e non dotate di adeguati sistemi di drenaggio. Le difficoltà esecutive, unite alla scarsa conoscenza del comportamento dei materiali, portarono alla corrosione delle armature interne, causando distacchi e danni strutturali che, nel tempo, hanno reso necessari delicati interventi di restauro. Il fallimento del sistema non fu tuttavia dovuto a difetti intrinseci, quanto all’impossibilità di conciliare l'ambiziosa visione di Frank Lloyd Wright con i limiti tecnologici e produttivi dell’epoca.

case in blocchi di cemento textile block houses
Millard House, 645 Prospect Crescent, Pasadena. By Kyle Magnuson – CC BY 2.0

Il fascino arcaico e futuribile di queste architetture non è sfuggito a registi, scenografi e location manager. La più celebre, la Ennis House, è diventata un’icona cinematografica: ha ispirato gli interni dell’appartamento di Deckard in Blade Runner (1982), la sala del trono di Meereen in Game of Thrones, è comparsa in The Day of the Locust, Mulholland Drive, Star Trek: The Next Generation, Twin Peaks, Predator 2, solo alcuni fra i moltissimi film e serie TV. La Millard House non è da meno. Ribattezzata “La Miniatura” per la sua scala contenuta e la ricercatezza delle decorazioni, è apparsa in Westworld come proprietà del personaggio Arnold Weber e in Star Trek: Deep Space Nine nell’episodio “Blood Oath”, come abitazione su Secarus IV. Anche il mondo musicale ha reso omaggio a queste architetture: videoclip come Why dei 3T (con Michael Jackson), Have You Ever degli S Club 7 e Vuelve di Ricky Martin sono stati girati tra i blocchi intessuti della Ennis House.

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