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18 Novembre 2025
9:04

Perché ci perdiamo nei centri commerciali e compriamo di più: la psicologia dell’effetto Gruen

Catene globali, psicologia del consumo ed esigenze progettuali hanno creato uno dei luoghi pubblici più riconoscibili del mondo contemporaneo: il centro commerciale. Ecco perché, ovunque andiamo, sembra sempre di entrare nello stesso posto.

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Perché ci perdiamo nei centri commerciali e compriamo di più: la psicologia dell’effetto Gruen
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Gallerie luminose, corridoi ampi, pavimenti lucidi, medesime catene di negozi e fast food… dall'Italia alla Cina, passando per gli Stati Uniti e gli Emirati Arabi, i centri commerciali condividono sorprendentemente lo stesso look and feel. Non è un caso: queste somiglianze sono figlie delle logiche – ormai standardizzate – che negli ultimi settant’anni hanno plasmato il nostro modo di fare acquisti. Dietro la progettazione dei templi del consumo contemporanei vi sono infatti criteri economici e psicologici ben definiti; costruire spazi e flagship store quasi del tutto identici tra loro abbatte i costi, garantisce ai marchi una riconoscibilità immediata e fa sentire il cliente a suo agio in un ambiente familiare e controllato, condizione che favorisce lo shopping. Così, che ci troviamo a Roma, a Singapore o a New York, l’esperienza resta pressoché identica.

L'effetto Gruen che spinge all'aquisto: come funziona

I centri commerciali moderni nascono negli Stati Uniti negli anni ’50, quando la società e le città, spinte dalla prosperità del dopoguerra e dall’espansione suburbana, stavano diventando sempre più car-centric. Il primo mall, completamente al chiuso e climatizzato, fu il Southdale Center, progettato dall'austriaco David Viktor Grünbaum, architetto ebreo emigrato in America con il nome di Victor Gruen. Ispirato ai boulevard viennesi e inaugurato nel 1956 a Edina, in Minnesota, fu pensato come una sorta di piazza coperta per i nuovi sobborghi americani: un luogo pedonale, protetto dal clima rigido del Midwest, in cui fare sì acquisti, ma soprattutto trascorrere il tempo libero e socializzare. Era questa, in origine, la visione di Gruen, il quale finì per prendere le distanze dalle derive del suo stesso progetto quando si rese conto che il modello che aveva immaginato come spazio per la collettività era stato trasformato in un mero dispositivo commerciale. Ironia della sorte, la sensazione di disorientamento e sospensione che spesso proviamo entrando in un grande centro commerciale (perdiamo la percezione del tempo, dimentichiamo lo scopo per cui eravamo entrati e finiamo per trattenerci più del previsto, acquistando talvolta più del necessario) prende proprio il nome di "effetto Gruen".

Southdale Center
Southdale Center di Edina, Minnesota – Foto Bobak Ha’Eri – Own work, CC BY 3.0

Nel giro di vent’anni, la tipologia, facilmente replicabile e ormai rodata, si diffuse capillarmente negli Stati Uniti, sino a diventare uno standard esportato in tutto il mondo. Negli anni ’70 arrivò anche in Europa, senza subire trasformazioni sostanziali. Il concetto rimase dunque tale: grandi edifici dotati di ampi parcheggi ai margini delle città (così da evitare, soprattutto nel Vecchio Continente, qualsiasi interferenza con i centri storici), e articolati in gallerie lungo le quali si susseguono negozi, zone di sosta e ampi atri da cui si diramano i collegamenti verticali che distribuiscono i flussi sui diversi livelli.

In Italia, il primo centro commerciale aprì nel 1971 a Bologna, seguito nel 1974 dallo Shopping Center B di Cinisello Balsamo (MI). Da allora il numero è esploso: nel nostro paese si contano oggi oltre 1.000 centri commerciali distribuiti dal nord alle isole.

Perché i centri commerciali si somigliano tutti

Riflettendoci, la ragione del successo – e della conseguente standardizzazione – dei centri commerciali, risulta piuttosto chiara: il pubblico può acquistare beni di ogni tipo nello stesso luogo, riducendo tempi e costi di spostamento, grazie anche agli ampi parcheggi quasi sempre gratuiti; i commercianti possono contare su un flusso costante di potenziali clienti, mentre per gli investitori su una formula collaudata e universalmente efficace. Se i centri commerciali si somigliano così tanto, è dunque perché la loro struttura è progettata per essere redditizia e facilmente replicabile.

Quanto agli accorgimenti, questi sono sia spaziali, sia legati alla strategia commerciale; spiccano, ad esempio, la distribuzione delle funzioni e dei negozi secondo gerarchie precise, pensate per garantire un flusso omogeneo di visitatori, e la definizione di percorsi, talvolta labirintici, che spingono le persone a camminare il più possibile davanti a display ed espositori, rendendo meno immediata l’individuazione delle uscite. Contribuiscono a un effetto analogo anche elementi come i corrimano trasparenti, che offrono una visuale continua lungo le gallerie e le vetrine. I grandi marchi, dalla moda alla ristorazione, adottano poi layout, soluzioni tecniche e arredi omologati, identici ovunque per ragioni di brand identity: caratteristiche che rendono i punti vendita quasi indistinguibili tra loro e ne accelerano notevolmente la realizzazione.

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Galleria di un centro commerciale con corrimano trasparente.

Il potere rassicurante della familiarità

Altra dimensione fondamentale è quella della familiarità: la naturale predisposizione a muoversi con maggiore sicurezza in ambienti che ormai riconosciamo o ci appaiono prevedibili, mettendoci subito a nostro agio. Le luci artificiali, sempre accese o modulate al diminuire di quella naturale, quasi annullando la percezione dello scorrere del tempo, unite a un’atmosfera controllata in cui la musica e l'assenza di finestre su strada schermano qualsiasi rumore o stimolo proveniente dall'esterno, contribuiscono a creare una sorta di bolla di comfort: un “non luogo” in cui la specificità locale viene neutralizzata a favore di un’esperienza universale, resa psicologicamente appagante dall’atto stesso dello shopping. Frutto di anni di analisi di mercato, osservazione dei comportamenti e metriche di vendita, i centri commerciali sono strutture progettate a tavolino per guidare i flussi e incoraggiare l’acquisto impulsivo, sollevando le persone dal bisogno di decifrare codici culturali, anche in contesti diversi. Specchio della contemporaneità, il mall mostra come la globalizzazione abbia prodotto architetture prive di identità, che non appartengono più a un luogo preciso ma a una rete planetaria fondata sul consumo.

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