
Quando nel 2008 il robot aspirapolvere Roomba superò i due milioni e mezzo di unità vendute, sembrava l'inizio di una nuova era: quella in cui i robot avrebbero popolato le nostre case, prendendosi cura delle faccende quotidiane. D'altra parte il primo robot-aspirapolvere (per la cronaca si chiamava Trilobite ed era prodotto da Electrolux), fece la sua comparsa nel 1996. Eppure, a quasi 30 anni dal suo debutto e dopo i prototipi lanciati da azienda come Tesla, Unitree e la norvegese 1X, quel futuro tanto atteso non è ancora arrivato. I robot domestici sono rimasti confinati a pochi compiti ripetitivi, come pulire i pavimenti, tagliare l'erba o ripulire la piscina, mentre i progetti più ambiziosi – quelli dei robot tuttofare o dei cosiddetti umanoidi – faticano a superare la soglia del laboratorio. Se vi state chiedendo perché i robot non sono ancora diventati una tecnologia pop, sappiate che la risposta va ricercata in una pluralità di fattori: da un lato ci sono limiti tecnici e costi di produzione ancora troppo elevati, dall'altro continuano a esistere pregiudizi verso questi strumenti e la mancanza di una reale utilità nei vari compiti domestici.
A che punto siamo dopo 30 anni di robot
Allo stato attuale delle cose, i robot “da compagnia” sono abbastanza evoluti da suscitare empatia, ma ancora troppo primitivi per risultare indispensabili nel quotidiano. Anche se chi possiede un robot-aspirapolvere tende a trattarlo come una sorta di “animale domestico robotico”, finendo persino con il dare un nome a questi dispositivi, non si è ancora arrivati a rendere queste macchine oggetti d'uso comune. Una delle ragioni dietro questo insuccesso della robotica va ricercato nell'incapacità dei robot di svolgere più compiti in ambienti complessi, come le nostre case e i nostri uffici. Aspirare e lavare il pavimento è un conto; piegare i vestiti, caricare una lavastoviglie, cucinare o portare a spasso il cane, sono attività ben più complesse e più difficili da automatizzare.
E anche se negli ultimi anni aziende come Tesla, Unitree e la norvegese 1X hanno mostrato prototipi capaci – almeno sulla carta, nei video promozionali – di svolgere una pluralità di compiti complessi, allo stato attuale delle cose non hanno avuto una diffusione di massa. Anche perché molto spesso, dietro quelle dimostrazioni, si nascondono talvolta sistemi manovrati da remoto e ancora lontani dall'autonomia assoluta promessa dai produttori.
Una possibile soluzione al problema potrebbe essere l'accelerazione che si sta facendo nel mondo dell'intelligenza artificiale, in modo particolare degli LLM (Large Language Model), i modelli linguistici di grandi dimensioni che permettono alle macchine di comprendere comandi in linguaggio naturale e convertirli in azioni. Google, con il progetto Gemini Robotics visibile anche nei video qui sotto, ha mostrato come un braccio robotico possa ricevere l’istruzione “prendi l'oggetto X e mettila nel contenitore Y” riuscendo difatti a compiere l'azione.
È un passo avanti, ma la strada è lunga: mancano ancora le basi di quella che gli esperti chiamano intelligenza fisica, cioè la capacità di comprendere peso, forza, attrito e fragilità degli oggetti. Per farlo servono enormi quantità di dati, che nessuno ha ancora raccolto. Alcuni ricercatori propongono di “insegnare” ai robot osservando video online o simulando milioni di interazioni in ambienti virtuali, ma siamo ancora in fase sperimentale.
Anche ammesso che questi problemi vengano risolti, restano ostacoli di natura pratica: batterie poco durature, alti costi di manutenzione e problemi di sicurezza. Un robot umanoide, essendo una macchina complessa e pesante, deve rispettare norme rigorose: se si spegne mentre è in equilibrio, può cadere e danneggiarsi. Per questo le prime applicazioni realistiche saranno probabilmente limitate a contesti industriali o di logistica, ben lontani dalle abitazioni.
Per essere utile un robot non per forza dev'essere umanoide
A questo punto sorge una domanda: è davvero necessario che un robot abbia sembianze umane? Le gambe sono energeticamente inefficienti, mentre strutture su ruote o cingoli garantiscono maggiore stabilità. Puntare su robot dalle sembianze umanoidi deriva più da un immaginario collettivo fortemente influenzato dal mondo del cinema e dei fumetti che da una reale esigenza funzionale. Un robot che cammina e muove le braccia conquista più facilmente l'attenzione dei media rispetto a un modello anonimo, seppur efficiente, che cammina su ruote. Eppure, forse, proprio in questa distanza tra forma e funzione si nasconde uno dei più grandi motivi del loro mancato successo. Finché continueremo a inseguire la fantasia del robot “umano” in senso stretto, rischieremo di dimenticare ciò che davvero ci serve: macchine semplici, affidabili e accessibili, capaci di rendere la vita più comoda senza bisogno di dover per forza di cose imitare l'uomo.