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9 Luglio 2025
15:37

Scoperto il “dark oxygen” sui fondali dell’Oceano Pacifico: ecco di cosa si tratta

La presenza di “ossigeno oscuro” a oltre 4000 metri di profondità, dove la fotosintesi non può avvenire vista l'assenza di luce, sarebbe attribuita a reazioni elettrolitiche innescate da noduli polimetallici – composti a base di ferro, manganese e altri elementi minori, tra cui nichel e litio – presenti sul fondale marino.

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Scoperto il “dark oxygen” sui fondali dell’Oceano Pacifico: ecco di cosa si tratta
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Credit: Geomar

A poco più di 4000 metri di profondità nell’Oceano Pacifico, gli scienziati hanno scoperto l’esistenza del cosiddetto “dark oxygen”, cioè ossigeno prodotto in assenza di luce con processi differenti dalla fotosintesi. Uno studio suggerisce che la sua origine sarebbe legata ai noduli polimetallici presenti in abbondanza sul fondale oceanico, i quali, comportandosi come delle vere e proprie “batterie”, sarebbero in grado di separare gli atomi di idrogeno e ossigeno che formano le molecole d’acqua attraverso reazioni elettrolitiche. Se confermata, questa scoperta potrebbe aprire nuove prospettive e interpretazioni sull’origine e evoluzione dei cicli dell’ossigeno nella storia geologica della Terra.

Cos'è l’“ossigeno oscuro”: i noduli polimetallici

Il cosiddetto “dark oxygen” è stato scoperto in un’area grossomodo compresa tra il Messico e le Hawaii e facente parte della zona Clarion-Clipperton, una piana abissale larga oltre 4.5 milioni di chilometri quadrati e punteggiata da rilievi montuosi sottomarini. Utilizzando dei lander bentonici, cioè piattaforme di ricerca autonome progettate per effettuare misurazioni in profondità, gli scienziati hanno rilevato una produzione netta di ossigeno sul fondale oceanico. In altre parole, hanno osservato che la quantità di ossigeno prodotta superava quella consumata dalle poche comunità biologiche presenti a quelle profondità. Esclusa la possibilità di errori tecnico-strumentali, i ricercatori si sono concentrati sull’individuazione della fonte di questo ossigeno che, a tali profondità, non può essere attribuito alla fotosintesi. Infatti, a oltre 4000 metri sotto la superficie oceanica ci si trova ben all’interno della zona afotica, ovvero quella fascia della colonna d’acqua nella quale la luce solare non penetra e dunque la fotosintesi non può avvenire.

Dopo aver escluso diverse ipotesi sulla possibile fonte di questo ossigeno, gli esperti hanno concluso che la causa andasse ricercata nei noduli polimetallici presenti sul fondale marino.

Distribuzione globale dei noduli di manganese negli oceani. Credit: GEOMAR
Distribuzione globale dei noduli di manganese negli oceani. Credit: GEOMAR

Noduli polimetallici e scissione dell’ossigeno

Sulla superficie fangosa di Clarion-Clipperton, o appena al di sotto di essa, si trovano trilioni di noduli polimetallici. Noti anche con il nome di noduli di manganese, si tratta di composti solidi con dimensioni variabili da uno a oltre dieci centimetri, prodotti dalla precipitazione chimica di idrossidi di ferro e ossidi di manganese, disciolti nell’acqua marina, attorno a un nucleo poggiato sul fondale, ad esempio una conchiglia. Sarebbero proprio questi noduli i responsabili della produzione di ossigeno nei profondi fondali dell’Oceano Pacifico. Infatti, oltre a ferro e manganese, i noduli conterrebbero elevate concentrazioni di elementi minori, come il litio e il nichel, che possono aumentare la conduttività e l’efficienza catalitica, innescando reazioni di elettrolisi con l’acqua circostante.

Nodulo di manganese prelevato dai fondali dell’Oceano Pacifico Meridionale. Credit: Wikimedia Commons.
Nodulo di manganese prelevato dai fondali dell'Oceano Pacifico Meridionale. Credit: Wikimedia Commons.

"Se si immerge una batteria nell’acqua di mare, inizia a frizzare", ha spiegato il professor Sweetman, autore dello studio, in un’intervista. "Questo accade perché la corrente elettrica scinde l’acqua di mare in ossigeno e idrogeno, che si manifestano sotto forma di bolle. Riteniamo che qualcosa di simile avvenga naturalmente con questi noduli."

I ricercatori hanno messo alla prova questa teoria in laboratorio, dimostrando che i noduli possono generare correnti elettriche abbastanza intense da scindere le molecole dell’acqua marina. I risultati dello studio, condotto da un team internazionale guidato dai ricercatori della Scottish Association for Marine Science (l’Associazione scozzese per le scienze marine), sono stati pubblicati nel luglio 2024 sulla prestigiosa rivista internazionale Nature Geoscience.

Un letto di noduli polimetallici nell’offshore delle isole Cook. La dimensione dei noduli nella foto varia da 2 a 10 centimetri. Credit: Wikimedia Commons.
Un letto di noduli polimetallici nell'offshore delle isole Cook. La dimensione dei noduli nella foto varia da 2 a 10 centimetri. Credit: Wikimedia Commons.

Possibili implicazioni dello studio sul dark oxygen

L’ipotesi, per quanto intrigante, richiede tuttavia studi più approfonditi per chiarire, ad esempio, il ruolo delle attività microbiche sui noduli di manganese e misurare i livelli di ossigeno in altri contesti sottomarini. Ciononostante, se confermata, potrebbe aprire nuove strade per l’interpretazione dell’evoluzione dei cicli dell’ossigeno nella storia geologica del nostro pianeta, con possibili implicazioni anche per la ricerca di ossigeno su altri pianeti e lune.

Allo stesso tempo, però, la scoperta ha riacceso il dibattito sulle attività minerarie in ambiente oceanico. Infatti, proprio per via della presenza di litio, cobalto, nichel e altre risorse critiche, i noduli polimetallici sono da tempo oggetto di interesse per l’estrazione mineraria. Anche nella zona Clarion-Clipperton, la International Seabed Authority, l’organizzazione incaricata di definire le regole per l’utilizzo delle risorse minerarie nei fondali oceanici, ha concesso oltre 16 contratti esplorativi per l’estrazione dei noduli di manganese.

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