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Il concetto di neurodivergenza è un concetto complesso da definire, ma che guarda alle differenze di funzionamento neurologico come a una parte naturale della biodiversità umana. In questa prospettiva, condizioni quali autismo, ADHD e dislessia non vengono classificate come patologie da correggere, bensì come espressioni legittime della variabilità neuro‑cognitiva della specie. È così che un mondo scolastico, lavorativo e istituzionale costruito sul funzionamento cognitivo della maggioranza, finisce per diventare pieno di ostacoli e incomprensioni per le minoranze con differenze cognitive. Sempre più scuole e imprese stanno però ripensando la propria organizzazione per favorire l'inclusività, adottando misure di personalizzazione dei programmi scolastici o esaltando le diversità e la creatività con la creazione di team di lavoro organizzati come gruppi cognitivi eterogenei.
Da dove viene e cosa significa “neurodivergenza”
Il termine “neurodiversity” non ha un’origine certa, e recentemente si è accesa una polemica (affrontata su un articolo pubblicato su Autism) sulla provenienza di questa parola che, sino a qualche tempo fa, si attribuiva a Judy Singer, una sociologa australiana che iniziò a riconsiderare la “patologia” come una normale variante di esistenza, un modo di essere e non una malattia. La questione era scardinare la differenza tra “normale” e “anormale”, iniziando a considerare alcune condizioni come “altra normalità”, un diverso funzionamento e non certo una malattia.
Tradizionalmente, le differenze cognitive sono state da sempre affrontate dalla medicina come deficit da diagnosticare e, se possibile, da debellare o risolvere. Parlare di neurodiversità o neurodivergenza significa allora guardare in maniera più ampia il funzionamento della mente dell’essere umano, e mettere l’attenzione anche sull’inadeguatezza di un mondo costruito per la maggioranza e non per le minoranze con un funzionamento cognitivo differente. Scuole, luoghi di lavoro, interfacce digitali: tutti questi ambienti sono pensati per chi presenta uno sviluppo neurale e cognitivo “comune”, mentre nella neurodivergenza finiscono per creare difficoltà e attriti all’apprendimento.
Esempi di adozione della prospettiva neurodivergente nel lavoro e a scuola
Guardare ad alcune condizione come differenti dalla normalità piuttosto che patologiche ha portato a ripensare il rapporto tra condizione neurodivergente e ambiente. Alcune grandi aziende hanno capito che creando programmi aziendali per dipendenti autistici potevano aumentare la creatività dei team, puntando proprio su gruppi cognitivamente eterogenei. Quando implementata in modo corretto, si è notato che la neurodiversità porta un aumento della produttività, un minore abbandono del lavoro per i neurodivergenti e la riduzione di errori nei compiti di lavoro di gruppo.

In ambito educativo è nato quello che si chiama Universal Design for Learning (UDL) che propone curricula di studio flessibili pensati per una varietà di stili cognitivi. Dalla classica lezione standard, l’UDL inserisce più variabilità di apprendimento, includendo testo, audio, video, grafici interattivi e realtà aumentata. Gli studenti vengono chiamati a co-progettare il percorso, e a ogni studente viene data possibilità di scegliere le modalità che predilige, a prescindere dalla sua condizione, aumentando così la personalizzazione, l’inclusività e riducendo lo stigma. È un modello che anticipa la diversità e non cerca di “riparare” in un secondo momento, supporta la partecipazione attiva e porta miglioramenti significativi in termini di rendimento, motivazione e inclusività.