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18 Gennaio 2023
8:58

Il calcestruzzo romano riesce davvero ad “autoripararsi”? Cosa dice il nuovo studio sulla sua durabilità

Una recente ricerca del MIT fa chiarezza sulla straordinaria durabilità del calcestruzzo usato dai Romani. Quali differenze ci sono tra quello utilizzato nell'antica Roma quello prodotto da noi oggi?

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Il calcestruzzo romano riesce davvero ad “autoripararsi”? Cosa dice il nuovo studio sulla sua durabilità
calcestruzzo romano

È di recente pubblicazione uno studio di alcuni ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology, USA) chiamato Hot mixing: Mechanistic insights into the durability of ancient Roman concrete che analizza la modalità di preparazione delle componenti base del calcestruzzo utilizzato dagli antichi Romani. Quello che da sempre stupisce è come sia stato possibile avere un così elevato grado di durabilità del materiale nonostante l'esposizione ad agenti atmosferici nel corso dei secoli. Lo studio preso in esame cerca di chiarire proprio questo aspetto tramite una lunga sperimentazione iniziata addirittura nel 2017!

Senza entrare troppo nel dettaglio tecnico della ricerca, cerchiamo di capire qui quali sono gli aspetti fondamentali del lavoro e quali implicazioni possono avere i risultati mostrati.

Lo studio scientifico sul calcestruzzo romano

Il team di ricerca ha prelevato una serie di campioni da testare nel sito archeologico di Privernum, vicino Roma. Uno studio di dettaglio ha permesso la loro esatta caratterizzazione in termini di composizione chimica. Dunque, a ritroso, si è potuto capire quale potesse essere la procedura di miscela e di preparazione dei materiali che è stata utilizzata.

In particolare, lo studio presuppone l'utilizzo di una miscela ad alte temperature (chiamata hot mixing) della malta Romana, in modo tale che sia presente una fonte di idrossido di calcio [Ca(OH)2] capace di reagire con l‘anidride carbonica per formare dei cristalli che, espandendosi, riescono a chiudere eventuali fessure presenti nell'elemento.

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Granuli di Calce nel prodotto Romano finito (Lime clasts)

I test sul calcestruzzo

A prova di quanto supposto, i ricercatori hanno sperimentato questa nuova tecnica di preparazione, utilizzando come base i componenti formanti un moderno calcestruzzo. A valle della preparazione del provino e della sua maturazione, questo è stato sottoposto a rottura meccanica dello stesso (immagine A in basso).

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L’esperimento condotto dai ricercatori del MIT

Il provino, artificialmente separato dalla frattura, è stato poi avvicinato ad una distanza variabile tra 0,5 mm e 0,1 mm. Si è poi misurato il quantitativo di acqua passante (immagine B in basso) durante un dato tempo di osservazione. Lo stesso test è stato effettuato con un provino formato con calcestruzzo ordinario (cioè senza modifiche secondo la "ricetta" romana).

Il risultato del confronto, che è espresso mediante il grafico dell'immagine C in basso, mostra come la percentuale di acqua passante il provino "romano" si avvicini a 0 dopo circa 30 giorni di osservazione, a differenza di quello contemporaneo che mostra valori ben più alti! Guardando nel dettaglio (immagine D ed E della figura in basso), si osserva la formazione di un nuovo materiale nel campione romano, a riempimento della fessura, generato dalla reazione chimica dei granuli di calce con l'acqua passante. Il nuovo materiale formatosi viene identificato (tramite tecniche spettroscopiche) come calcite [CaCO3].

Facciamo chiarezza sulla capacità autoriparatrice del calcestruzzo romano

Sì, è vero che lo studio qui discusso presenta delle evidenze sperimentali che mostrino come il materiale finale – se preparato con opportuna ricetta – possa in parte auto-ripararsi a seguito della presenza di nuova acqua negli strati fessurati. Va però fatta chiarezza sulla questione: le lesioni che possono ricucirsi mediante questa tecnica, secondo quanto riportato ad oggi, sono relativamente piccole in ampiezza: si parla di decimi di millimetro.

Inoltre, lo studio presentato si concentra su provini di limitata estensione e in particolari condizioni ambientali. Stiamo quindi parlando di piccole lesioni, solitamente sono attese nel calcestruzzo che oggi utilizziamo per effetto dei fenomeni di ritiro (evaporazione di parte d'acqua d'impasto nel tempo) e condizioni di degrado che potremmo definire ordinarie. Questo certamente comporta un miglioramento nelle prestazioni attese del materiale, ma non una sua totale immunità alle azioni esterne agenti, specie se di elevata entità.

Può essere quindi fuorviante associare a questo fenomeno, ad esempio, il fatto che alcune strutture romane siano sopravvissute nel tempo a violenti terremoti!

Le implicazioni della scoperta

Sebbene sia tutto ancora molto embrionale, lo studio presentato dal MIT apre alcuni scenari su nuovi sviluppi relativi alla preparazione del calcestruzzo per come oggi lo conosciamo. Utilizzare o migliorare le tecniche di preparazione della miscela finale per ottenere un materiali in grado di ripararsi, sebbene in maniera limitata, può ridurre notevolmente le operazioni di manutenzione.

Come diretta conseguenza di ciò, diventa di importante rilevanza l'eventuale incremento di vita utile che potrà essere associato a queste nuove costruzioni: vita utile maggiore vuol dire minore impegno in ricostruzione/riparazione e minore inquinamento ambientale legato alla produzione di nuovi prodotti.

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