
La sera del 9 ottobre 1963, oltre 260 milioni di metri cubi di roccia staccatisi dal Monte Toc, al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto, investirono il bacino artificiale prodotto con le acque del torrente Vajont da quella che all'epoca era la diga più grande al mondo, provocando uno tsunami di 50 milioni di metri cubi d'acqua che scavalcarono la diga colpendo i paesi di Longarone, Erto e Casso e provocando 1917 vittime. Il disastro del Vajont, uno dei maggiori disastri naturali provocati dall'uomo nella storia, è stato una tragedia evitabile.
L’ambizioso progetto e i primi avvertimenti degli esperti
L'idea di fare un'enorme diga sul fiume Vajont apparve per la prima volta negli anni '20. Il contratto per la sua costruzione è stato affidato a una società denominata SADE (Societa Adriatica di Elettricità). Nonostante gli avvertimenti e le opinioni negative degli ingegneri e della popolazione locale, SADE riuscì ad accaparrarsi il terreno dove doveva essere costruita la diga.
Durante la fase di costruzione venne assunto un team per ispezionare l'area, di cui facevano parte un ingegnere tedesco di nome Leopold Müller e due geologi italiani, Eduardo Semenza e Franco Giudici, i quali studiarono la valle e conclusero che le pendenze sopra il serbatoio erano piuttosto instabili e dunque il rischio che si potesse verificare una frana era concreto. I loro avvertimenti caddero però nel dimenticatoio, anche perché la costruzione della diga era ormai quasi del tutto ultimata.
Cosa accadde la notte del 9 ottobre del 1963
Alle 22:39, una parte della montagna dalla cima del Monte Toc scivolò all’interno del bacino della diga del Vajont. Parliamo di 263 milioni di metri cubi di roccia, più del doppio rispetto al volume d'acqua nel lago artificiale, che precipitò a 110 km/h nel bacino, facendo risalire l'acqua fino a 250 metri. Ciò ha generato un'enorme onda tsunami di almeno 50 milioni di metri cubi d'acqua che straripò oltre la diga.
L'inondazione provocata dall'enorme onda ha distrutto i villaggi nella valle del fiume Piave in appena 4 minuti, uccidendo 1917 persone e trasformando la terra sotto la diga in una pianura di fango con un cratere da impatto profondo 60 metri e largo 80 metri. Il paese di Longarone, quasi direttamente sotto la diga, fu quasi completamente distrutto così come diversi piccoli villaggi vicini alla frana.
Quali furono gli errori di valutazione: una tragedia evitabile?
La necessità di comprendere la causa fisica della frana ha stimolato generazioni di geologi ed ingegneri che hanno studiato l'evento in modo esaustivo, concludendo che una frana antica aveva già interessato il versante e quest’ultima si riattivò lungo i sottili strati di argilla all'interno del calcare che la caratterizzavano. Infatti i lati del canyon, nell'area di accumulo della acque, specialmente sulla riva sinistra, comprendevano rocce non compattate con differenti proprietà fisiche interne, strati di calcare e argilla.
Il primo riempimento dell'area di accumulo iniziò nel febbraio del 1960, prima che la diga fosse completata. Da questo momento in poi si iniziarono a cogliere i primi segni di instabilità sulle rive proprio sopra il lago artificiale. Il costone meridionale scivolò di circa 3,5 cm/giorno e si creò una crepa lunga 2 km. La prima frana indebolì la stabilità del costone di roccia e fece intuire che era assolutamente possibile il verificarsi di una frana di dimensioni maggiori.
In seguito sono stati eseguiti test geologici più dettagliati sui pozzi in cui sono stati collocati i piezometri, che hanno dimostrato come la superficie di scorrimento era molto profonda; in seguito è stato allestito un laboratorio sismografico per il monitoraggio dei terremoti vicino alla diga stessa. Questi studi hanno dimostrato che l'area era molto instabile e c’era dunque il rischio che il fianco della montagna potesse scivolare da un momento all’altro.
Ancora oggi è in corso un dibattito sul contributo delle precipitazioni, delle variazioni del livello delle acque nelle dighe e dei terremoti come fattori scatenanti della frana, nonché opinioni diverse sul fatto che si trattasse della riattivazione di una vecchia frana o di una completamente nuova.
La diga del Vajont oggi
Non tutti sanno che la diga è sopravvissuta a questa catastrofe. La possente costruzione in cemento armato chiude ancora il canyon del fiume Vajont e non ha prodotto un solo kilowatt di energia, oltretutto non è più stata riempita d’acqua. La diga è stata parzialmente aperta al pubblico nel 2002 con visite guidate gestito dall'Ente Parco delle Dolomiti Friulane e accesso alla passerella lungo la cima. Sono visitabili anche i Centro Visite di Erto e Casso.