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A nemmeno ventiquattr'ore dall'entrata in vigore della tregua tra Israele e Iran, nelle prime ore del mattino di giovedì 26 giugno il regime dell'Ayatollah Khamenei ha dichiarato di aver giustiziato per impiccagione tre uomini accusati di essere spie al soldo di Israele.
Come reso noto dall'agenzia di stampa iraniana Tasnim, i tre detenuti giustiziati, Idris Ali, Azad Shojai e Rasoul Ahmad Rasoul, erano accusati di aver cercato di importare nel Paese attrezzature (non rese note) per ferire e uccidere una figura del regime di cui non è stata specificata l'identità, e prima della pena finale sono stati processati per cooperazione «a favore del regime sionista».
Oltre a queste tre esecuzioni avvenute a Urmia, città sul confine turco, l'agenzia di stampa iraniana Noor News ha confermato che almeno 700 persone sono state arrestate con l'accusa di collaborazionismo per conto del governo d'Israele, e in particolare per aver lavorato per il Mossad, il servizio segreto israeliano per l'intelligence e le operazioni speciali estere.
Dopo gli ultimi fatti tra i due Paesi, non stupisce questo giro di vite, che è tipico del regime iraniano soprattutto nei momenti di agitazione sociale e politica. Già solo nei primi quattro mesi del 2025 sono state eseguite 340 impiccagioni, ma Teheran ne ordina circa un migliaio all'anno. Una delle ultime impiccagioni annunciate, ma non ancora avvenute, è quella dell’attivista curda Pakhshan Azizi, detenuta nella prigione iraniana di Evin con l'accusa di appartenere a gruppi impegnati in attività armate contro la Repubblica islamica.
Secondo varie organizzazioni per i diritti umani – tra cui Amnesty International – l'Iran è il secondo Paese al mondo (dopo la Cina) per numero di condanne a morte, e quanto riportato dalle agenzie di stampa iraniane conferma la linea dura – e apparentemente inespugnabile – della dittatura iraniana.