
Un nuovo studio pubblicato su Molecular Psychiatry ha fatto luce su una scoperta relativa a un processo chiamato apprendimento difensivo adattivo, un meccanismo che ci permette di non vivere costantemente in allerta. Quando il cervello percepisce un pericolo, reagisce in pochi istanti: può immobilizzarsi (il classico freezing), scappare o attaccare. Queste risposte automatiche sono essenziali per la sopravvivenza. Ma cosa succede se il pericolo non si concretizza mai? Se, per esempio, un’ombra minacciosa appare più volte senza mai trasformarsi in un vero predatore? In questi casi, continuare a reagire come se la minaccia fosse reale sarebbe uno spreco di energia e di risorse. Il cervello deve imparare a distinguere il “pericolo vero” da quello solo apparente, adattando le proprie risposte. Il nuovo studio fa luce sul “regista” di questo processo: una minuscola area del cervello chiamata nucleo interpeduncolare (IPN), situata nel mesencefalo, una regione profonda e antica del cervello. Questa struttura, finora poco conosciuta, gioca un ruolo centrale nel modulare la paura e nel decidere quando smettere di averne.
Le strategie del cervello di fronte alla paura
Le risposte difensive non sono tutte uguali: dipendono dall'intensità e dalla prevedibilità della minaccia. Quando un pericolo appare improvviso e incontrollabile, prevalgono reazioni istintive come la fuga o l'immobilizzazione. Se invece il cervello riconosce che la minaccia è prevedibile e non realmente dannosa, entrano in gioco circuiti che promuovono calma e curiosità. L'IPN si trova al centro di questo equilibrio: se la sua attività rimane elevata, mantiene lo stato di allerta e blocca l’esplorazione; se diminuisce, consente al cervello di passare dalla paura alla valutazione, favorendo l’adattamento. In questo modo, l'organismo non solo si difende, ma impara anche a gestire le emozioni legate alla paura, sviluppando una forma di resilienza.
Allenare il cervello a non nascondersi dal pericolo: il nuovo studio sui topi
Per comprendere come avviene questo adattamento, i ricercatori hanno condotto un esperimento sui topi, simulando una situazione di pericolo. Dall’alto veniva proiettata un’ombra scura in espansione, uno stimolo visivo incombente che imita l’avvicinarsi di un predatore. Alla prima esposizione, i topi reagivano immobilizzandosi o cercando un rifugio. Tuttavia, dopo tre giorni consecutivi di esperimento, il loro comportamento cambiava: restavano nascosti per meno tempo e dedicavano più tempo all’esplorazione. Era la prova di un apprendimento adattivo: il cervello aveva “capito” che quella minaccia non rappresentava un pericolo reale.

Analizzando l’attività dell’IPN (già noto per il suo coinvolgimento nei processi di ansia e stress) tramite fotometria a fibre, una tecnica che consente di osservare in tempo reale l’attività neuronale, i ricercatori hanno scoperto che una specifica popolazione di neuroni si attivava nelle prime esposizioni all'ombra del predatore. Con il passare dei giorni, però, la loro attività diminuiva parallelamente alla riduzione dei comportamenti di paura. Quando questi neuroni venivano inibiti artificialmente, i topi smettevano quasi del tutto di nascondersi; mantenerli invece attivi impediva loro di apprendere che la minaccia era innocua. L’IPN si comporta dunque come un regolatore della paura, capace di amplificare o attenuare la risposta difensiva e di guidare il cervello verso l’adattamento
Due circuiti, due funzioni
Gli scienziati hanno poi scoperto che l’IPN non agisce da solo, ma attraverso due circuiti distinti, ciascuno con un compito specifico. Una parte dei neuroni dell’IPN comunica con il nucleo tegmentale laterodorsale (LDTg), un'altra regione del cervello che invia segnali eccitatori verso aree cerebrali implicate nella curiosità, nella motivazione e nell’esplorazione. Il collegamento IPN–LDTg utilizza il GABA come neurotrasmettitore ed è quindi di tipo inibitorio: riducendo l’attività del LDTg, l’IPN “addormenta” temporaneamente i comportamenti esplorativi quando la minaccia appare rilevante.
Un’altra popolazione di neuroni nell’IPN, quelli che esprimono somatostatina (Sst), sembra invece responsabile dei comportamenti di evitamento. Questi neuroni, a differenza dei precedenti, non si adattano: continuano ad attivarsi anche quando la minaccia non è più pericolosa. Quando i ricercatori li hanno “spenti”, i topi hanno mostrato meno paura e più esplorazione, anche in situazioni nuove. Questo suggerisce che i neuroni Sst possano contribuire all’ansia generalizzata, quella sensazione di pericolo costante che persiste anche in assenza di minacce reali.