
La sunk cost fallacy, o fallacia dei costi perduti, è un bias cognitivo che si verifica quando le persone continuano ad investire tempo, energie e risorse in qualcosa che si sta rivelando fallimentare, solo perché hanno già investito tanto in passato. Questo meccanismo può manifestarsi anche nelle relazioni, spingendo a mantenere legami disfunzionali pur di non “sprecare” l’investimento emotivo precedentemente sostenuto. Ma non è solo la fallacia dei costi perduti a portarci a non chiudere le relazioni, perché c'è anche chi invece soffre di dipendenza affettiva, con un diverso livello di coinvolgimento rispetto a chi soffre di fallacia dei costi perduti.
Le cause delle difficoltà a lasciare: cos’è la fallacia dei costi perduti
Il concetto di fallacia dei costi perduti è stato approfondito nel celebre esperimento dei due psicologi Hal Arkes e Catherine Blumer nel 1985: a un gruppo di persone venivano proposti due abbonamenti per spettacoli teatrali; alcuni partecipanti pagavano un prezzo più alto, altri un prezzo scontato. Nel corso della stagione teatrale, i ricercatori osservarono che chi aveva pagato di più partecipava a un numero più alto più spettacoli, anche quando non era particolarmente interessato o soddisfatto. Da qui, il concetto più generale: le persone tendono a non essere disposte a rinunciare a un proprio obiettivo anche quando esso si rivela dannoso, fallimentare o poco appagante solo perché c’è stato un investimento precedente, cadendo in quella che l’economia comportamentale definisce sunk cost fallacy (in italiano, fallacia dei costi irrecuperabili). Ad esempio, si continua a leggere un libro che ci annoia perché ormai è stato acquistato, oppure si continua a guardare una serie che non ci appassiona solo perché ormai si è arrivati a metà. Capita anche di continuare a restare all’interno di un ambito lavorativo che non ci soddisfa perché si è investito già molto tempo e risorse. Insomma, la fallacia dei costi perduti può estendersi a qualsiasi scenario di vita quotidiana e influenzare scelte personali e relazionali. Mollare sarebbe uno spreco e rinunciare vorrebbe dire sancire ufficialmente la perdita. Per capire bene questo bias cognitivo serve dare un’occhiata a come ragiona il cervello. Il nostro organo cerebrale non è programmato per ottimizzare la felicità, ma per evitare le perdite. La loss aversion, l’avversione alla perdita, è un principio potente: perdere qualcosa ci fa soffrire più di quanto ci gratifichi guadagnarla. Ecco perché, quando abbiamo investito tempo, energie, denaro o emozioni, l’idea di “buttare via tutto” è uno spreco che non siamo disposti ad accettare e che ci provoca un dolore reale (studi neuroscientifici mostrano che le aree cerebrali attivate dalla perdita, sono le stesse coinvolte nel dolore fisico!). Il cervello quindi, evita di farci subire quel senso di mancanza e ci induce a restare anche quando non è conveniente farlo, spogliandosi della sua veste razionale. Si crea così quella che si definisce dissonanza cognitiva: il disagio psicologico che si verifica quando le nostre azioni non sono coerenti con ciò che sappiamo o pensiamo. In altri termini, una parte di noi sa che la situazione (il progetto, il libro o la relazione) non ci fa più bene o non ci piace, ma l’altra parte continua ad investire; nasce una tensione interna difficile da sopportare. Per ridurla, la mente cerca giustificazioni: “in fondo non è così male”, “dopo tutto quello che ho fatto, non posso mollare ora”, “tutti i rapporti hanno alti e bassi”. In questo modo, la dissonanza si riduce, ma solo temporaneamente; si rimane incastrati in una zona di comfort dolorosa, dove restare sembra meno faticoso che affrontare la realtà della perdita.
Quando il bias della sunk cost fallacy influenza le relazioni amorose
Gli studi mostrano come la fallacia dei costi perduti sia più potente quando siamo emotivamente coinvolti. Grazie ad altri esperimenti sociali infatti, sappiamo che le persone che dedicano più tempo in un’attività tendono a continuarla anche quando sanno che non porta benefici. Nelle relazioni accade lo stesso: più ci identifichiamo con il legame, più diventa difficile abbandonarlo, anche se ci fa male. Uno studio di Johnson e Rubsbult (1989) ha mostrato che il livello di impegno percepito spinge molti individui a restare in relazioni insoddisfacenti, pur di non perdere ciò che hanno costruito. Effettivamente nei rapporti amorosi investiamo tempo, energie, routine, sacrifici personali e progetti; di conseguenza, più la relazione è lunga o intensa, più si genera l’idea che tutto quel vissuto e quell’impegno “debbano valere la pena”. Così, anche se il benessere relazionale si affievolisce o i problemi di coppia ci creano sofferenza, lasciare diventa difficile non perché l’amore sia ancora vivo, ma perché sentiamo di dover giustificare l’investimento passato: “ho investito tanto, quindi non posso lasciare”, “abbiamo passato troppo tempo insieme per buttare via tutto”, “dopo tutto quello che fatto per lui/lei…”.
Punti di contatto e differenze con la dipendenza affettiva
A questo punto entra in gioco un’altra dinamica, diversa ma spesso intrecciata: la dipendenza affettiva. È molto importante però chiarire che non sono la stessa cosa. La fallacia dei costi perduti è un bias cognitivo, cioè un errore nel modo in cui il cervello valuta le decisioni: invece di guardare avanti, restiamo ancorati al passato perché non vogliamo sprecare ciò che abbiamo investito. La dipendenza affettiva invece, è un disturbo psicologico complesso che coinvolge identità, autostima e attaccamento. Non è solo una distorsione del pensiero, ma una struttura emotiva profonda, spesso radicata nelle esperienze di attaccamento precoce, nella paura di restare soli o di non essere amati. Potremmo dire che:
- la fallacia dei costi perduti nasce dalla mente razionale, che cerca coerenza e giustifica scelte passate;
- la dipendenza affettiva nasce dalla mente emotiva, che teme l’abbandono e confonde la sofferenza con l’amore.
La differenza principale sta nel livello di coinvolgimento:
- nella fallacia, la persona resta nonostante sappia che non è soddisfatta (“resto perché non posso buttare via tutto quello che ho fatto”);
- nella dipendenza affettiva, la persona resta perché non riesce a immaginarsi senza l’altro, che è fonte di legittimazione individuale e identitaria (“non posso vivere senza lui/lei”, “devo riuscire a farmi amare a tutti i costi”).
In molti casi però, i due fenomeni di intrecciano: chi vive una dipendenza affettiva può usare la fallacia dei costi perduti come giustificazione razionale per restare, mentre chi cade nella fallacia può lentamente sviluppare una forma di dipendenza emotiva perché più resta, più si lega.