
Alla fine di ogni stagione tennistica, quando la maggior parte dei tornei ha già consegnato i suoi verdetti, c’è ancora un palcoscenico che resta illuminato: le ATP Finals. È il torneo dei migliori 8 al mondo, una sorta di “coppa dei campioni” del tennis.
Ma dietro le luci e gli effetti speciali del torneo attuale, le Finals nascondono una storia lunga più di cinquant’anni, fatta di esperimenti, superfici improbabili, spostamenti da un continente all’altro e di un campione che non è mai riuscito a conquistarle.
Dalle origini giapponesi alla consacrazione mondiale
Le ATP Finals nascono nel 1970, in un’epoca in cui il tennis sta diventando globale e professionale. L’idea era semplice ma rivoluzionaria: creare un torneo che riunisse i migliori giocatori dell’anno, indipendentemente dagli Slam vinti, per incoronare il vero “Maestro”.
La prima edizione si giocò a Tokyo, sul tappeto sintetico (carpet), e fu vinta da Stan Smith, l’uomo che più tardi avrebbe dato il nome alle celebri scarpe Adidas.
Negli anni ’70 il torneo si chiamava Masters Grand Prix e cambiava spesso sede: Parigi, Barcellona, Stoccolma, Melbourne. L’idea era ancora in via di definizione, ma già allora nacquero le prime leggende. Il rumeno Ilie Năstase, per esempio, vinse quattro edizioni tra il 1971 e il 1975: un dominio che lo consacrò come il primo vero genio irriverente del tennis moderno — capace di colpi e scherzi sorprendenti, come il celebre ‘gatto nero’ portato in campo per distrarre l’italiano Adriano Panatta.

Nel 1977, il torneo trova la sua prima “casa stabile”: il Madison Square Garden di New York. È qui che le Finals diventano uno spettacolo globale. Gli anni ’80 portano in scena John McEnroe, Björn Borg e Ivan Lendl, protagonisti di duelli ad alta tensione. Lendl, in particolare, trasformò la costanza in arte: otto finali consecutive e cinque titoli, record per l’epoca.
Con gli anni ’90 il tennis entra nell’era moderna: nasce l’ATP Tour, e il torneo cambia nome in ATP Tour World Championships. Si gioca in Europa — prima a Francoforte, poi a Hannover — e il livello tecnico diventa altissimo. I campi rapidi esaltano il gioco d’attacco di campioni come Pete Sampras, che vince cinque edizioni e consolida la sua leggenda.
Dal 2000 al 2008 l’evento prende il nome di Tennis Masters Cup e viaggia fino a Shanghai, simbolo del tennis globale. Ma è nel 2009, con l’arrivo alla O₂ Arena di Londra, che il torneo entra nell’epoca dello show business puro: luci blu, intro da film e il pubblico trasformato in una platea teatrale. In quel decennio, Roger Federer e Novak Djokovic si spartiscono gran parte dei trofei ed entrambi detengono un record: Federer è il giocatore con più partecipazioni alle Finals (18), simbolo di una carriera di costanza e longevità, mentre Djokovic è l’uomo con più titoli vinti (7), a testimonianza di una precisione quasi scientifica nei momenti decisivi.

Dal 2021, il testimone passa a Torino e al Pala Alpitour, dove le Finals trovano un’energia nuova e un pubblico caldissimo. Qui, nel 2024, Jannik Sinner scrive la storia: primo italiano a vincere il torneo e a diventare, letteralmente, il “Maestro in casa”.
Le 4 superfici del torneo più selettivo al mondo
Le Finals sono cambiate nel tempo anche nella superficie su cui si gioca. Oggi le immagini ci restituiscono sempre il blu brillante del cemento indoor, ma non è sempre stato così. Nel corso della sua storia, il torneo è stato giocato su quattro superfici diverse:
- Carpet (tappeto sintetico): la più usata fino agli anni 2000, velocissima e imprevedibile. Richiedeva riflessi istantanei e un gioco aggressivo.
- Erba: un’eccezione rarissima, nel 1974 a Melbourne. Un’edizione “sperimentale” che trasformò il torneo in un mini Wimbledon.
- Hard indoor: la superficie più stabile, adottata a Londra e poi a Torino. Offre equilibrio e precisione, riducendo il vantaggio degli specialisti del servizio.
- Hard outdoor: utilizzato a Houston nel 2003 e 2004, l’unico periodo recente in cui il torneo si è disputato all'aria aperta.
Questa varietà di superfici racconta l’evoluzione del tennis stesso: da sport di esplosività a disciplina di resistenza e controllo. Oggi il cemento indoor rappresenta la sintesi perfetta tra velocità e regolarità, un compromesso che mette tutti alla prova senza favorire nessuno.
Nadal e la “maledizione” delle Finals
C’è però un grande campione che, pur avendo vinto tutto, non è mai riuscito a conquistare le ATP Finals: Rafael Nadal. Non è questione di talento o di mancanza di determinazione: Nadal si è qualificato a ben 17 edizioni, raggiungendo due finali (2010 e 2013), ma senza mai sollevare il trofeo.
Il motivo principale è legato al momento della stagione. Le Finals si giocano a novembre, su una superficie rapida e indoor — esattamente il contrario dell’habitat naturale di Rafa, fatto di terra rossa e partite estenuanti sotto il sole. Arrivare a fine anno con il fisico integro è stato per lui una sfida più difficile di qualunque avversario e in molte edizioni si è ritirato per infortunio o ha giocato non al meglio della condizione. Eppure, anche senza quel titolo, Nadal resta parte essenziale della storia del torneo: il suo spirito competitivo ha reso ogni edizione più viva e imprevedibile.

Oggi Torino custodisce l’eredità delle ATP con un’anima tutta italiana, fatta di passione e spettacolo. E quando l’arena si fa silenziosa e il primo servizio fende l’aria, il pubblico capisce che sta iniziando l’ultimo capitolo dell’anno: il momento in cui il tennis incorona il suo vero Maestro.