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Quante volte ci è capitato di accendere una candela o un fuoco nel camino con un fiammifero? Anche se oggi sono rimpiazzati dai più moderni accendini, i fiammiferi rimangono degli affascinanti oggetti presenti nelle nostre case. Dietro al semplice gesto di accenderli, si nasconde un interessante processo chimico e fisico che rende il fiammifero quasi uno strumento magico. Il fiammifero, introdotto dal chimico inglese John Walker nel 1827, non è altro che un piccolo bastoncino di legno o di carta arrotolata con una particolare capocchia, la parte più importante. Questa infatti, contiene sostanze chimiche che, grazie all’attrito, si attivano e innescano una reazione che produce calore e, infine, una fiamma. Quando strisciamo la capocchia contro la superficie ruvida della striscia abrasiva sulla scatola, il calore che si genera avvia una reazione di combustione tra le sostanze che compongono il fiammifero e l'ossigeno presente nell'aria: fosforo rosso, clorato di potassio e solfuro di antimonio, perfettamente calibrati nelle giuste proporzioni, sono i protagonisti di questa quotidiana magia della chimica.
La chimica dei fiammiferi
Un fiammifero tradizionale mette insieme più componenti chimiche, ognuna con una precisa funzione, per ottenere, dopo lo sfregamento della capocchia del fiammifero su una superficie ruvida, una fiamma sufficientemente stabile e abbastanza duratura (parliamo comunque di pochi secondi) per poter accendere fornelli, candele o quello che vogliamo. Le sostanze presenti nei fiammiferi sono mescolate nelle giuste proporzioni e si trovano quasi tutte nella capocchia. Esse comprendono:
- un combustibile, come il solfuro d’antimonio che, come se fosse benzina o gasolio, brucia reagendo con l’ossigeno e liberando calore;
- un ossidante, solitamente clorato di potassio, in grado di ossidare, fornendo ossigeno, un altro composto chimico come il solfuro d’antimonio aiutandolo a bruciare;
- un composto come fosfato d’ammonio che impedisce che il fiammifero fumi troppo dopo l’accensione;
- cera di paraffina, per direzionare la fiamma lungo il corpo del fiammifero;
- pigmenti o coloranti;
- colla, che tiene insieme le varie parti della capocchia e della striscia abrasiva.

A questa miscela chimica, vanno unite le due componenti della striscia abrasiva su cui strisciamo il fiammifero, anch'essa essenziale per l'accensione dei fiammiferi tradizionali:
- polvere di vetro: per aumentare attrito e frizione nello sfregamento;
- fosforo rosso: nella frizione si trasforma in fosforo bianco, una forma più instabile che reagisce con l’ossigeno dell’aria.
Le fasi dell'accensione
Gli step veramente fondamentali per ottenere una fiamma sufficientemente duratura da far partire una combustione più grande sono tre:
- un’azione abrasiva che inneschi la fiamma: in questo passaggio l’energia cinetica dello sfregamento si trasforma in energia termica, ovvero calore.
- sufficiente calore per sostenere e alimentare la fiamma;
- la giusta proporzione di sostanze che bruciano senza dare fumi tossici o fiamme troppo vigorose o deboli;
Nello specifico: il calore prodotto durante la frizione trasforma il fosforo rosso in fosforo bianco, che, essendo molto volatile, reagisce con l'ossigeno presente nell'aria. Il calore decompone il potassio clorato, che a sua volta fornisce il necessario ossigeno per l'accensione del combustibile, il solfuro di antimonio, portando alla formazione di una fiamma stabile e bruciando il legno del fiammifero.
Man mano che il solfuro d’antimonio si ossida, si formano ossidi di zolfo, che conferiscono il caratteristico odore di fiammifero bruciato, fino a esaurimento del combustibile. Il fumo formato dalla combustione non è un gas, ma un colloide, un sistema costituito da gas e piccole particelle non bruciate derivanti da una combustione incompleta, le quali, disperse in aria, formano il fumo che vediamo.

Fosforo e sicurezza
Questo complesso meccanismo di accensione basato sul fosforo non è sempre stato così sicuro. In origine veniva direttamente utilizzato il fosforo bianco, estremamente reattivo ma anche molto tossico, capace di causare gravi danni alla salute, specialmente per chi lavorava nella produzione dei fiammiferi. Per rendere più sicuro il loro utilizzo, si passò al fosforo rosso, una variante chimicamente più stabile e meno pericolosa, diventata poi lo standard nella fabbricazione moderna.
La distinzione tra fosforo bianco e rosso ha portato anche a una differenziazione nei tipi di fiammiferi. Nei primi fiammiferi a capocchia, il fosforo è già presente sulla testa del bastoncino: erano più facili da accendere, perché si accendono solo sfregando la capocchia su qualsiasi superficie ruvida, ma anche meno sicuri. Oggi esistono i cosiddetti fiammiferi di sicurezza, in cui il fosforo rosso non si trova nella capocchia ma, come abbiamo visto, nella striscia abrasiva della scatola, rendendo impossibile l’accensione accidentale. Questa evoluzione non solo ha migliorato la sicurezza d'uso quotidiano, ma ha anche reso i fiammiferi un prodotto più affidabile e regolato, senza perdere il suo fascino “vecchio stile”.