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I soldi possono comprare la felicità? Secondo uno studio pubblicato nel 2018 da Purdue University e coordinato dal dott. Andrew Jebb, esisterebbe una soglia economica oltre la quale il denaro smette di incidere positivamente sul benessere soggettivo: 95 000 dollari annui per la “soddisfazione di vita” e tra i 60 000 e i 75 000 dollari per il “benessere emotivo”. Attenzione però, al di sopra di questa soglia, il legame si indebolisce o addirittura si inverte. La notizia ha fatto il giro del mondo, ma solleva interrogativi che vanno oltre i numeri: cosa intendiamo per “felicità”? Come si misura?
Il denaro “compra” la felicità fino a una certa soglia
Lo studio di Jebb et al. (2018), condotto su un ampio campione internazionale, distingue tra due dimensioni della felicità: la “soddisfazione di vita” e il “benessere emotivo”. La prima è una valutazione generale e riflessiva che le persone danno alla propria esistenza, come quando ci si chiede: “Quanto sono soddisfatto della mia vita nel complesso?”. Si tratta, dunque, di un giudizio cognitivo, basato su confronti, aspettative, obiettivi raggiunti o mancati. Il "benessere emotivo", invece, riguarda le emozioni vissute nel quotidiano: include stati affettivi come gioia, serenità, stress o rabbia, ed è legato a come ci si sente durante le attività di ogni giorno. I risultati mostrano che il denaro aiuta fino a un certo punto, poi può diventare fonte di ansia, confronto sociale o perdita di senso. Questa curva, decrescente oltre una certa soglia, non è una novità assoluta: già Daniel Kahneman e Angus Deaton (2010), in un celebre studio condotto su oltre 450.000 statunitensi, avevano individuato una soglia di 75.000 dollari annui oltre la quale il benessere emotivo smetteva di crescere, nonostante l’aumento del reddito.
Felicità come imperativo sociale
Da un punto di vista sociologico, la felicità non può essere compresa solo come emozione individuale ma è (anche) un fatto sociale. Riprendendo Durkheim, possiamo definire la felicità come una “norma culturale”: con ciò si intende dire che l'esercizio o la ricerca di felicità orienta i nostri comportamenti, desideri e aspettative. Secondo Illouz, in molte società contemporanee, la felicità è diventata quasi un obbligo morale, una promessa del mercato, un indicatore di successo personale e collettivo. In questo senso, essere felici non è solo una questione privata, ma anche un imperativo politico ed economico in nome della quale sono prese scelte collettive, politiche, personali e, appunto, economiche. Sara Ahmed (2010), nel suo saggio "The Promise of Happiness", sostiene che la felicità è usata per rafforzare determinati ideali: l’individuo produttivo, ottimista, autosufficiente. Chi devia da questo ideale, per povertà, protesta o sofferenza psichica, viene percepito come disfunzionale. La felicità, quindi, non è neutrale: ha una genealogia, produce esclusioni, crea gerarchie.
Sempre Eva Illouz (2012) sottolinea che la cultura del benessere è ormai “colonizzata” dal discorso psicologico e neoliberale, che invita gli individui a “lavorare su se stessi” per essere felici, spostando l’attenzione dalle condizioni strutturali alle responsabilità personali. In questo quadro, povertà e infelicità rischiano di essere interpretate solo come fallimenti individuali, spostando l’attenzione sulla ricerca di cause anche strutturali, sociali e culturali.
Ma, come approfondisce insieme a Edgar Cabanas in Happycracy (2018), la felicità non è più solo un obiettivo di vita, ma una pre-condizione obbligatoria da cui partire per costruire ogni altro ambito della propria esistenza: lavoro, relazioni, successo. La felicità diventa così uno “standard di efficienza emotiva”. Essere infelici non è più solo spiacevole: è sospetto, improduttivo, persino colpevole (“la chiave della tua felicità è in mano a te e alle scelte che fai”).
Secondo gli autori, questo “regime della felicità” è perfetto per governarci senza l’uso della coercizione: siccome è un meccanismo interiorizzato l’unica cosa di cui ha bisogno per funzionare è che noi ci crediamo e ci autosorvegliamo, mettendo in pratica comportamenti e narrazioni che sostengono e riproducono questo modello di individuo felice (e quindi) efficiente/produttivo. Secondo gli autori, si tratta di una nuova forma di controllo sociale, che trasforma i soggetti in “imprenditori di sé stessi”.
È possibile misurare la felicità? Tra metriche, esperienze e critica
Il World Happiness Report delle Nazioni Unite, per esempio, classifica annualmente i paesi sulla base della “felicità percepita”, calcolata attraverso un mix di indicatori oggettivi (PIL pro capite, aspettativa di vita) e soggettivi (libertà percepita, sostegno sociale, fiducia nelle istituzioni). A queste metriche si affiancano strumenti istituzionali come le OECD Guidelines on Measuring Subjective Well-being (2013), che propongono di integrare misurazioni standardizzate con approcci più contestuali e culturalmente sensibili.
In ogni caso, la misurazione della felicità attraverso indicatori monetari o soggettivi apre interrogativi metodologici e teorici. In primo luogo, si tende a trattare la felicità come un’entità misurabile e comparabile, trascurando il fatto che essa è storicamente, culturalmente e linguisticamente costruita (Ahmed, 2010), ovvero che ciò che le persone intendono per "felicità" dipende dal contesto sociale in cui vivono, dalla cultura in cui sono cresciute e perfino dalle parole a disposizione per descriverla. Inoltre, si presuppone che gli individui sappiano “dire” quanto sono felici, riducendo la complessità dell’esperienza a una scala da 1 a 10 (Sointu, 2005).
Infine, il legame tra reddito e benessere è fortemente mediato da fattori come il livello di disuguaglianza percepita, la sicurezza sociale e la qualità delle relazioni: è quindi un indicatore relativo, non assoluto (Wilkinson & Pickett, 2009). Detto in parole più semplici, non conta solo quanto si guadagna, ma anche come ci si sente rispetto agli altri, se ci si sente protetti e se si hanno legami significativi nella propria vita.