
Perché l’alcol esercita un richiamo così forte sugli esseri umani? La risposta non è solo culturale, ma sembra che la nostra attrazione per questa sostanza affondi le radici nel passato più remoto. Misurando il contenuto di etanolo nei frutti mangiati dagli scimpanzé, un recentissimo studio pubblicato su Science Advances ha calcolato che questi animali ingeriscono ogni giorno circa 4,5 kg di frutta, significa un’assunzione media di 14 grammi di etanolo, l’equivalente di un bicchiere di vino. Non si tratta di un’eccezione, ma di un indizio di come i nostri antenati abbiano convissuto con l’alcol per milioni di anni. Altri lavori hanno persino ricostruito enzimi antichi, scoprendo una mutazione comparsa dieci milioni di anni fa che ha aumentato di quaranta volte la nostra capacità di metabolizzare l’etanolo: un'interessante strategia evolutiva. Se allarghiamo lo sguardo, scopriamo che centinaia di frutti selvatici contengono alcol, dalle bacche nordiche ai frutti tropicali, con valori che in certi casi toccano il 10%.
Gli scimpanzé selvatici assumono inconsapevolmente alcol
Gli scimpanzé non bevono birra né vino, ma assumono comunque alcol. Lo fanno inconsapevolmente, mangiando frutti maturi colonizzati da lieviti, che avviano la fermentazione degli zuccheri presenti nel frutto e la trasformazione in etanolo. Il Dott. Maro e i suoi colleghi hanno raccolto più di cento campioni di frutta in Costa d’Avorio e in Uganda, analizzandone il contenuto. Il contenuto medio di etanolo si aggira intorno allo 0,31–0,32%, con punte superiori allo 0,5% in specie come Ficus mucuso.

Ora, se si pensa che un singolo scimpanzé arriva a consumare circa 4,5 kg di frutta al giorno, significa un’assunzione media di 14 grammi di etanolo, pari a poco più di una pinta di birra o un bicchiere di vino da 125 ml secondo gli standard internazionali. Non stiamo parlando di ubriachezza, ma di un’esposizione cronica e costante, che può aver avuto un ruolo nell’abituare i primati – e i nostri antenati – a metabolizzare piccole dosi di alcol come parte normale della dieta. Il quantitativo, per quanto possa sembrare alto, non ha effetti particolarmente gravi sugli animali.
Quello che per gli scimpanzé ancora oggi esposti a piccole dosi di etanolo con la dieta, è semplicemente una strategia adattativa, per l'uomo nel mondo moderno si trasforma in un rischio, a causa dell'eccessiva concentrazione di etanolo che viene consumata con le bevande alcoliche, concentrazioni che nessun antenato ha mai sperimentato.
Una mutazione genica si è trasformata in un adattamento per la sopravvivenza
Se i dati di campo mostrano cosa accade oggi, la paleogenetica, cioè lo studio del passato attraverso il materiale genetico preservato nei resti che abbiamo a disposizione, ci racconta come abbiamo sviluppato questa attrazione verso l'etanolo.
Un gruppo di scienziati dell'Università della California, ha “resuscitato” nove versioni ancestrali, recuperate in reperti che attraversano circa 70 milioni di anni di storia dei primati, dell’enzima ADH4, cioè il primo enzima che l'etanolo incontra nel nostro corpo quando lo ingeriamo. Il risultato è sorprendente: quasi tutti questi enzimi erano inefficaci contro l’etanolo, ma circa 10 milioni di anni fa comparve una mutazione che cambiò le carte in tavola. In un solo passaggio, l’efficienza dell’ADH4 nel metabolizzare l’etanolo aumentò di 40 volte.
Questo momento epocale coincide con il passaggio a una vita più terrestre: a terra, i frutti raccolti andavano più incontro a fermentazione e dunque erano più ricchi di alcol. Chi sapeva sfruttare questa risorsa aveva un vantaggio energetico. Una piccola mutazione genetica si trasformò così in un adattamento cruciale per la sopravvivenza.

Mettere insieme questi tasselli ci porta a una conclusione chiara: la predisposizione all’alcol è il frutto di una lunga coevoluzione. I nostri antenati hanno incontrato regolarmente piccole dosi di etanolo nei frutti fermentati e una mutazione genetica ne ha reso più semplice metabolizzarlo.
L’etanolo è presente in tutto il mondo animale e vegetale
L’alcol, però, non è solo una questione di primati. Uno studio del Dott. Bowland e del suo team mostra che l’etanolo è diffuso in tutto il regno animale e vegetale. Nei frutti selvatici di sorbo o biancospino, in Finlandia, le concentrazioni oscillano tra lo 0,05 e lo 0,41% ABV (alcol in volume); in Israele, fichi e datteri raggiungono quasi l’1%; nei tropici, le cifre schizzano verso l’alto, fino a un massimo del 10,3% registrato in frutti di palma (Astrocaryum standleyanum) raccolti a Panama.
Non stupisce allora che molti animali abbiano sviluppato adattamenti specifici. I moscerini della frutta (Drosophila) vivono e si riproducono in ambienti con etanolo oltre il 4%, arrivando al 15% in contesti influenzati dall’uomo, e metabolizzano l’alcol con un’efficienza straordinaria. Questi esempi mettono in discussione l’idea che solo gli esseri umani abbiano a che fare con l’alcol: in realtà, l’etanolo è parte integrante degli ecosistemi, una sostanza che influenza relazioni tra piante, lieviti, insetti e mammiferi.