
Il dualismo mente-cervello ha origini molto antiche e controverse: oggi si è d’accordo nel rappresentare, almeno in termini concettuali, la mente come l’insieme delle funzioni psichiche e cognitive (quali pensare, ricordare, percepire…) e il cervello come l’organo biologico che rende possibili tali processi attraverso l'attività neuronale. Alcuni filosofi del passato pensavano che la sede della mente fosse il cuore; in seguito, con gli spiritualisti si diffuse l’idea che fosse l’anima a dirigere tutte le funzioni cognitive umane. Solo dalla metà dell'Ottocento si è raggiunto un accordo nell’identificare il cervello come unico responsabile dei nostri processi mentali. Eppure, nonostante questa idea unanime, le questioni che riguardano come il cervello generi la soggettività di un’esperienza, il “sentire interno” e la coscienza, rimangono ancora aperte.
La differenza tra mente e cervello dal punto di vista scientifico: “the hard problem of consciousness” e la volontà
Nonostante il rapporto mente-cervello venga ancora oggi discusso in termini filosofici, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi psicologi e neuroscienziati hanno iniziato a studiarlo in una prospettiva strettamente sperimentale, al di là delle considerazioni astratte. Inizialmente, i dati provenivano dall’osservazione comportamentale e dallo studio dell’attività cerebrale di soggetti sani o con lesioni. Successivamente, l’introduzione delle tecniche di neuroimmagine – come la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) – e di stimolazione cerebrale non invasiva – come la stimolazione magnetica e quella elettrica transcranica – ha reso possibile progettare esperimenti prima impensabili. Grazie a queste innovazioni, i neuroscienziati hanno mappato con precisione le principali aree cerebrali, collegandole a specifiche funzioni mentali: le aree di Broca e di Wernicke al linguaggio, l’amigdala alla paura, l’ippocampo alla memoria e il sistema limbico alla regolazione delle emozioni. È noto anche che un danno cerebrale comporta l’alterazione o la perdita della corrispondente funzione mentale, confermando il legame strettissimo tra mente e cervello.
Tuttavia, ciò che resta ancora senza una spiegazione soddisfacente è come un processo fisico – come un impulso elettrico o una scarica neuronale – possa trasformarsi in un’esperienza soggettiva, come sentire dolore, provare amore o avere una morale. In altre parole, sappiamo descrivere cosa accade nel cervello quando proviamo una sensazione, ma non perché quella sensazione “si senta” in un modo soggettivo e unico. Due persone possono mostrare la stessa attivazione neurale annusando lo stesso fiore, ma la percezione interiore dell’odore – se piacevole o meno, che emozioni susciti – non è misurabile scientificamente. Lo stesso accade con una tazzina di caffè amara e bollente: le aree cerebrali coinvolte sono le stesse per tutti, ma la qualità dell’esperienza varia da individuo a individuo. Questa dimensione soggettiva dell’esperienza, chiamata qualia dal filosofo David Chalmers, rappresenta ciò che egli definisce “the hard problem of consciousness”, ovvero il difficile problema della coscienza.
Inoltre, studi elettrofisiologici e di neuroimmagine hanno mostrato un altro fenomeno dibattuto: la volontà cosciente di agire emerge dopo l’inizio dell’attività cerebrale, quindi prima che la persona diventi consapevole della propria intenzione. Ciò solleva interrogativi sulla natura del libero arbitrio: se le nostre decisioni derivano da processi cerebrali che precedono la consapevolezza, la libertà di scegliere potrebbe essere solo un’illusione, come suggerito dagli esperimenti di Benjamin Libet.
Il rapporto tra mente e cervello: le principali teorie scientifiche
Senza entrare nel merito delle numerosissime teorie della mente, ci concentreremo su quelle che hanno tentato di sciogliere il problematico rapporto tra mente-cervello:
- Teoria della selezione dei gruppi neuronali (TSGN) – Gerald Edelman: il cervello funziona come un sistema evolutivo interno; i gruppi di neuroni si rafforzano o indeboliscono in base all’esperienza, creando mappe neurali che rappresentano corpo, mondo e memoria. Spiega l’integrazione delle informazioni, ma non perché emerga la sensazione soggettiva.
- Teoria dei neuroni specchio / mente incarnata – Rizzolatti, Sinigaglia: alcuni neuroni si attivano sia quando agiamo sia quando osserviamo azioni altrui, permettendo di “risuonare” con gli altri e favorendo, ad esempio, l'empatia. Non spiega però perché questa attivazione generi l'esperienza soggettiva interna né la consapevolezza di sé.Teorie emergentiste: la coscienza emerge dall’attività collettiva dei neuroni, come il moto delle molecole determina la temperatura. Rimane però oscuro come e perché questa attività dia origine all’esperienza vissuta.
Alcune scuole di pensiero, inoltre, sostengono che qualunque sistema in grado di svolgere le stesse funzioni del cervello possa essere considerato una “mente”, aprendo alla possibilità che la coscienza possa essere sperimentata anche dalle macchine, come l’AI, oltre che dagli esseri umani. In questo contesto, vale la pena riflettere su un esperimento mentale proposto da David Chalmers: immaginare un cervello pensante in cui i neuroni vengano progressivamente sostituiti da chip di silicio che ne duplicano esattamente le funzioni. Man mano che i neuroni vengono sostituiti, la coscienza sarebbe ancora presente?
Nonostante le teorie più recenti descrivano con sempre maggiore precisione i meccanismi cerebrali alla base delle funzioni cognitive e percettive, non esiste ancora un quadro teorico esaustivo che spieghi perché e come un processo cerebrale produca esperienza soggettiva, il “sentire qualcosa”. Le neuroscienze descrivono correlazioni, ma non ancora le cause ultime. La dimensione fenomenologica, cioè l’esperienza interiore e qualitativa, sfugge alle misurazioni oggettive. In sintesi: il cervello è materia che pensa, ma come la materia arrivi a pensare resta uno dei più grandi misteri della scienza.
Dalle origini alla scienza moderna
Prima di arrivare alla più “attuale” fisiologia cerebrale, che riconosce nel cervello il responsabile di tutte le nostre funzioni cognitive, merita di essere ripercorso brevemente il pensiero di alcuni primi filosofi. Inizialmente, Platone individuava nell’anima la sede della ragione, delle emozioni e dei desideri degli uomini; era separata dal corpo ed era pensata come sostanza immateriale e immortale. Per il filosofo anche la razionalità era regolata dall’anima: il cervello, insomma non sembrava avere alcuna funzione importante. Aristotele, invece, pensava che l’anima risiedesse nel cuore e la concepiva come principio che dà vita alle funzioni corporee e mentali; il cervello, "freddo e ricco di acqua", serviva solo da raffreddamento del cuore. Solo all’inizio 1600, con Cartesio, iniziò ad essere considerato un certo dualismo tra mente e corpo, entrambi riconosciuti come parti integranti dell’uomo e capaci di comunicare tra di loro tramite la ghiandola pineale. Alla fine del 1800 nasce la fisiologia cerebrale: si scopre che ogni area del cervello regola funzioni mentali specifiche. Così, quello che da sempre era stato un dilemma filosofico, inizia ad essere materiale di interesse scientifico.