Da secoli, vampiri, zombie e fantasmi esercitano un certo fascino nell'immaginario collettivo: nelle leggende europee, ad esempio, il vampiro incarna la paura dell'ignoto e dell'alterità, mentre in altre culture, come quella haitiana, lo zombie rappresenta il terrore della perdita di sé. Questi esseri mostruosi hanno origine da credenze e simbologie antiche, spesso intrecciate a fenomeni naturali o malattie poco conosciute. I mostri, attraverso le loro rappresentazioni e a seconda della cultura di riferimento, forniscono una lente potente con cui esploriamo paure profonde, il rapporto con la morte e la decadenza fisica. Inoltre a volte il loro significato ha a che fare con la politica, la morale e l’organizzazione delle società.
La nascita della leggenda dei vampiri e la malattia dietro al mito
La leggenda del vampiro, con la sua pallida figura e l’avversione per la luce del sole, trova radici profonde nell'Europa orientale, in paesi come Ucraina, Ungheria e Romania. Tuttavia, dietro il mito del vampiro si celano anche spiegazioni di tipo medico. Una delle teorie più affascinanti a proposito di questa figura ne attribuisce l'origine alla malattia rara della protoporfiria eritropoietica (EPP). La EPP è una malattia genetica caratterizzata da una marcata fotosensibilità, che può provocare gravi lesioni cutanee se i malati sono esposti alla luce del sole. Il pallore e la necessità di evitare il sole, sintomi di questa malattia, potrebbero aver contribuito alla costruzione del vampiro come figura pallida e notturna.
Come nasce la leggenda degli zombie
La figura dello zombie ha le sue radici profonde nella religione e nella cultura haitiana, legata al Voodoo. Spiega Michel-Rolph Trouillot che, nella tradizione voodoo, uno zombie non è semplicemente un morto vivente, ma una persona privata della sua volontà attraverso pratiche magiche, spesso sotto il controllo di uno stregone o "bokor". Il termine "zombie" deriva dal termine africano "nzambi", che significa "spirito" o "anima" in diverse lingue bantu. Questo processo di “zombificazione” riflette una metafora potente della schiavitù e della perdita dell'autonomia individuale ed è un modo in cui le comunità haitiane rielaborano il trauma della schiavitù e della dominazione coloniale.
Secondo Romero (1968), nella cultura europea e americana contemporanea, lo zombie è diventato il simbolo della decadenza sociale, della paura dell'apocalisse e della perdita di umanità di fronte a catastrofi globali, come pandemie o crisi ambientali. Così, la figura dello zombie incarna non solo il terrore del ritorno dei morti, ma anche l'ansia riguardo al futuro e alla sopravvivenza della civiltà.
Il ruolo dei mostri nella cultura e nella società
I mostri, come vampiri, zombie o fantasmi, rappresentano spesso il tentativo delle culture di dare un volto alle paure comuni, legate a eventi naturali sconosciuti o a cambiamenti sociali difficili. Ad esempio, il vampiro è spesso associato alla paura del contagio e delle malattie, mentre lo zombie simboleggia la perdita di umanità e identità. Abbiamo sempre creduto che, quindi, una volta spiegata l’origine di alcune malattie o eventi naturali, queste figure avessero esaurito il proprio compito. Dal punto di vista degli studi umanistici, invece, queste figure “mostruose” non vanno considerate come semplici fantasie o sciocchezze.
I mostri svolgono una funzione cruciale nel tracciare i confini tra ciò che è "umano" e ciò che non lo è. Il filosofo Noël Carroll, nel suo saggio The Philosophy of Horror (1990), suggerisce che i mostri siano creature che ci portano a interrogarci sull’identità umana: “che cosa significa essere umano? Quali sono i limiti della nostra moralità e della nostra civiltà?”
Graeber e Wengrow, invece, ad esempio, ci aiutano a capire che questi miti non sono soltanto espressioni di paura o superstizione, ma un dispositivo utile per l'organizzazione sociale e politica delle comunità. Le narrazioni sugli spiriti, infatti, non riflettono solo il potere e la coercizione esercitati “dall’alto verso il basso” (chi è al potere sancisce cosa è proibito e crea un mito/mostro per tenere la comunità alla larga da quei comportamenti, atteggiamenti, caratteristiche), ma sono anche l’espressione di un’agire insieme consapevole, creativo e non gerarchico.
Graeber e Wengrow ci spiegano come molte comunità del passato potevano, con modalità di gestione “orizzontali” (senza il bisogno di vivere strutturati in gerarchie) creare queste storie per dare risposte collettive alla gestione di conflitti o crisi interne. Le credenze sui mostri o sugli spiriti inquieti erano quindi un modo per negoziare insieme il comportamento morale, decidendo collettivamente cosa fosse giusto o sbagliato, creando a tutti gli effetti un sistema di autoregolamentazione sociale. Questa “moralità orizzontale” era flessibile e adattabile e non faceva ricorso a strutture autoritarie o oppressive. Il mito non era imposto, ma co-creato dalla comunità per mantenere una certa etica o ordine sociale.