Guardare la Nazionale agli Europei o ai Mondiali sembra essere una questione che supera la passione per il calcio. Ci sono molte ragioni, tra le quali alcune di carattere evolutivo e neuroscientifico, che la scienza può formulare per spiegare questo comportamento: la nostra tendenza a conformarci, l’interesse per la straordinarietà dell’evento, la narrazione epica dei media. Tutti elementi che attraggono il nostro cervello, che ci fanno attivare emotivamente per sentirci parte del nostro gruppo.
La nazionale crea un senso di unione e solidarietà
Tutto dipende dalla natura sociale di Homo sapiens, che ha trovato nella vita di gruppo un modo efficace per sopravvivere e riprodursi. La vita sociale di noi umani, come per tante altre specie sociali, ha assunto una conformazione a gruppi, all’interno dei quali vige un clima di collaborazione, mentre è al contempo promossa una forma di competizione con i gruppi esterni.
In questo senso, il tifo per le squadre nazionali di calcio si configura come appartenenza ad uno dei gruppi più importanti che le nostre società hanno costruito nel tempo, e la sua popolarità dipende proprio dal fatto che la nazionale di calcio si sovrappone ad uno dei principali gruppi nei quali viviamo, il nostro Stato, messo alla prova in un terreno da gioco competitivo con gli altri Stati.
Se per le squadre di club della serie A questo tipo di aggregazione è molto più frammentaria (non è inusuale per una città o una regione avere due o più club di appartenenza, come Roma e Lazio, Milan e Inter o Juventus e Torino), la stragrande maggioranza della popolazione non ha ostacoli nell'identificarsi nella nazionale italiana.
Indipendentemente dal fatto che si sia tifosi di calcio o meno, supportare la nazionale crea un senso di unione e solidarietà. Durante i tornei internazionali, come la Coppa del Mondo o gli Europei, le persone si ritrovano a condividere un’identità collettiva, che rafforza il legame sociale e nazionale, senza contare che tutto ciò diventa un facile pretesto per incontrarsi con gli amici e sentirsi uniti.
Cosa succede nel cervello
Sul piano cognitivo e neuroscientifico giocano un ruolo fondamentale la breve durata dell’evento, la distanza notevole tra le edizioni del torneo e la sua configurazione a gironi.
- La brevità dell’evento impatta sul nostro modo di percepirlo come nuovo, raro, e ciò cattura maggiormente l’interesse rispetto ad eventi ripetitivi, come il campionato di serie A che si gioca ogni anno;
- La notevole distanza tra un Europeo e l’altro, così come per i Mondiali, aumenta la percezione di straordinarietà e il carico di aspettative ad esso associato: la ricerca mostra che eventi rari possono portare a una maggiore attivazione dopaminergica nel nucleus accumbens e nella corteccia prefrontale, suggerendo che il cervello attribuisce un valore più alto a esperienze che si verificano sporadicamente, come eventi che si tengono una volta ogni quattro anni. Ne consegue anche un carico emotivo particolarmente elevato dovuto alla sensazione di star vivendo qualcosa di non comune, e ciò si riverbera nel nostro sistema di memoria con il cosiddetto “effetto von Restorff”, secondo cui gli eventi unici o distintivi sono ricordati meglio rispetto a quelli comuni;
- La struttura a gironi e ad eliminazione diretta crea il giusto mix tra impegno ed epicità del "giocarsi il tutto per tutto", che fornisce una dose rilevante di catecolammine inebrianti alle nostre sinapsi.
L’ambiente celebrativo intorno a noi e la narrazione dell’impresa calcistica
Inoltre, durante il torneo, non sono pochi gli stimoli ambientali che, anche al di fuori della nostra volontà, ci riportano all’evento calcistico: maxischermi nelle piazze, televisori all’esterno dei locali e un’attenzione mediatica fuori dal comune, senza contare le pubblicità nelle quali è coinvolta la nazionale.
Tutti ingredienti che alimentano e ci avvolgono in una narrativa e, come sappiamo, il nostro cervello va matto per le narrazioni, tanto più se ci vedono protagonisti assieme ai nostri membri dell’ingroup e in competizione con i membri dell’outgroup. Raccontare storie sembra prerogativa dell’essere umano, tanto che John Niles suggerisce di cambiare il nome della nostra specie in "Homo narrans".
Le narrazioni creano cultura e uniscono le persone nelle imprese: gli studi dimostrano che il coinvolgimento nelle storie aumenta l’empatia e la capacità di capire credenze e desideri degli altri, con una sovrapposizione tra le aree del cervello che si attivano mentre leggiamo un testo di narrativa e le aree della cognizione sociale.