
Il 3 novembre, giorno in cui nel 1954 uscì il film "Gojira", i fan festeggiano il Godzilla Day. Non è solo una ricorrenza pop: è un’occasione per porre una domanda che pare uno scherzo e invece apre porte serissime sulla biologia dei giganti, sulla fisica dei fluidi e su come la scienza spiega i limiti del possibile. Se ci mettiamo il camice da laboratorio e togliamo la nostalgia, cosa resta del re dei kaijū? Un dinosauro? Un rettile mutato? Una creatura anfibia plausibile? Se dobbiamo rispondere come scienziati, la forma terrestre bipede del mostro alta decine di metri non regge: la legge quadrato–cubo e i vincoli meccanici lo schiacciano. Se pensiamo a un animale anfibio o marino-dominante, alcune difficoltà si attenuano: la fisica dei fluidi concede qualcosa, pur imponendo altri prezzi (pressioni, decompressione, respirazione, energetica). E il nome? La cultura accademica del cinema ci ricorda che "Gojira è un simbolo prima che un animale. Ma proprio questo simbolo, messo sul banco degli esperimenti concettuali, ci aiuta a raccontare come la scienza spiega l’impossibile: attraverso vincoli — matematici, fisici, causali — che delimitano la mappa del vivente. Il filo rosso è semplice: la scienza, quando parla di Godzilla usa il mito per spiegare perché alcune forme di vita possono esistere e altre no.
Le versioni cinematografiche e le interpretazioni biologiche negli anni
La storia cinematografica di Godzilla ha offerto negli anni molte interpretazioni biologiche e simboliche diverse. Nella serie giapponese Heisei, Godzilla è descritto come un antico Godzillasaurus, un rettile preistorico sopravvissuto all’estinzione e mutato dai test nucleari; nella versione americana del 1998 diventa un’iguana marina ingigantita da esperimenti francesi nel Pacifico; nella saga più recente del MonsterVerse, è invece un titanide primordiale, emerso dal Permiano e nutrito di radiazioni geotermiche.
Anche il suo aspetto fisico si è evoluto: nei film moderni le spine dorsali cambiano colore, dal blu acceso al viola o al rosato, per simboleggiare differenti stati energetici o emozionali della creatura. Ma la sua identità biologica resta volutamente ambigua: in alcune versioni è maschio (il “Re dei Mostri”), in altre una femmina capace di deporre uova, ma nella lingua giapponese il termine "Gojira" è neutro, senza genere grammaticale. Queste variazioni non cancellano la dimensione scientifica del mito: mostrano piuttosto come la cultura pop rielabora, di volta in volta, ipotesi evolutive e mutazioni fantastiche che la scienza reale può analizzare come metafore dei nostri limiti biologici e tecnologici.
La voce di Oxford Bibliographies su Godzilla inquadra il film del 1954 come un punto di svolta globale del cinema dei mostri e della cultura visuale: un personaggio capace di attraversare decenni, formati, paesi e riletture. Questa cornice è utile a due cose: primo, ricordare che l’animale “Godzilla” nasce come metafora potente; secondo, prendere sul serio la domanda biologica senza confondere il simbolo con la zoologia.

Un parente “vero” di Godzilla: il dinosauro chiamato Gojirasaurus quayi
La paleontologia ci regala un appiglio concreto. Nel 1997 Kenneth Carpenter descrive in dettaglio un grande teropode triassico del New Mexico e lo battezza Gojirasaurus quayi: una lunghezza stimata di circa 5,5 metri, denti seghettati, arti posteriori robusti, coda importante per l’equilibrio. Un predatore precoce per gli standard del Triassico superiore, e — dettaglio non banale — ancora immaturo alla morte, quindi con margini di crescita. La rilettura di Christopher Griffin, vent’anni dopo, colloca questi “primi giganti” in un quadro evolutivo più ampio: già nel Triassico i neoteropodi esplorano taglie maggiori, anche se rari e spesso rappresentati da individui giovani. In altre parole: la natura ha davvero “provato” forme grandi e bipedi, ma entro certi limiti strutturali.
Perché i giganti crollano: quando la matematica detta legge al corpo
Qui entra in scena un concetto chiave che la filosofa della scienza Lauren Ross propone come “spiegazione per vincoli”: ci sono vincoli matematici, di legge fisica e causali che non “accendono” un fenomeno, ma delimitano ciò che può esistere. Godzilla è l’esempio perfetto per capire il vincolo matematico chiamato legge quadrato–cubo: se raddoppiamo le dimensioni lineari di un animale, la sua massa cresce con il cubo, ma le sezioni di ossa e muscoli solo con il quadrato. Risultato: la massa aumenta più in fretta della capacità di sostenerla. E questo è un confine del possibile.
I numeri (seri) su Godzilla
Alla fine degli anni ’90 Per Christiansen, zoologo, prova a stimare massa e plausibilità biomeccanica del Godzilla cinematografico usando un modello in scala e il principio di Archimede (lo stesso usato per dinosauri reali).

I conti sono impietosi. A seconda dell’altezza scelta nei film, Christiansen ricava delle stime approssimative di dimensioni e peso di Godzilla. Per un altezza di circa 61 m, il mostro dovrebbe pesare intorno alle settemila (≈ 7058) tonnellate. Ipotizzando invece un'altezza di circa 91,5 m, arriverebbe a pesare più di ventitremila (≈ 23.822) tonnellate.
Con simili carichi, la locomozione bipede terrestre diventa un incubo: arti e muscoli risultano sottodimensionati per muovere quella massa “a passo di corsa”, persino “al passo”. Paradosso interessante evidenziato da Christiansen: la versione giapponese classica, più tozza e lenta, risulta biomeccanicamente meno assurda della versione snella e velocissima di certa filmografia occidentale.
Godzilla “funziona” meglio se è (anche) marino
La terra ferma è spietata coi giganti, il mare lo è un po’ meno. La spinta di Archimede alleggerisce i carichi su ossa e muscoli. Su questo terreno, Nicolas Dietrich offre un’analisi brillante e quantitativa prendendo spunto dal film Godzilla Minus One. L’idea del film è: legare serbatoi di freon al corpo del mostro, farlo scendere a 1.500 m di profondità e poi risollevarlo bruscamente, confidando nella decompressione letale.
Dietrich imposta il problema come farebbe in laboratorio: ipotizza per Godzilla ~20.000 tonnellate di massa e densità ~800 kg/m³ (valore “da semi-acquatico” che lo renderebbe tendenzialmente galleggiante), assume serbatoi da 50 L e proprietà note del freon (liquido ~1.174 kg/m³, gas ~5 kg/m³), applica leggi di galleggiamento, termodinamica e Boyle. La conclusione è doppia:
- in termini logistici servirebbe un’improbabile armata di bombole per vincere la spinta;
- a 1.500 m la pressione è ~14,7 MPa: una creatura davvero adattata (come i grandi mammiferi marini, per analogia di principio) potrebbe sopravvivere alla fase profonda e mitigare i danni da risalita.
Il punto non è “Godzilla esiste”: è che in acqua alcune condizioni diventano più difendibili rispetto all’assetto completamente terrestre. L’oceano, come vincolo fisico-causale, canalizza le possibilità del corpo.
La biologia resta scettica sulle “mutazione da radiazioni”
La narrativa originale lega Godzilla alle radiazioni. Qui la scienza è fredda: l’esposizione ionizzante, nel mondo reale, non orchestra mutazioni coordinate in grado di generare strutture e organi in una macroscala funzionale (più spesso causa danni letali o deleteri). Anche Christiansen, ragionando su crescita e fisiologia, mette in luce ostacoli insormontabili per un rettile terrestre di simili dimensioni: metabolismo, apporto d’ossigeno, termoregolazione. La metafora resta potentissima, la plausibilità biologica, no.