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21 Dicembre 2021
18:06

Cosa significa “radioattività”?

Spesso si sente parlare di radioattività: facciamo chiarezza su questo termine, andando a vedere nel dettaglio di cosa si tratta.

A cura di Luca Romano
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Cosa significa “radioattività”?
Radioattività 2

La radioattività fu scoperta per caso, e per molti decenni restò un fenomeno misterioso. La scoperta delle sue conseguenze sulla salute umana ha alimentato ulteriormente il fascino e il timore reverenziale. Oggi, tuttavia, la nostra comprensione del fenomeno è sostanzialmente totale, e abbiamo sviluppato anche metodi molto efficaci per rilevarlo e misurarlo.

La radioattività non è un killer invisibile

Il fatto che le radiazioni possano procurare danni alla salute (in particolare, la ionizzazione della molecola di DNA può portare alla rottura del filamento, che a sua volta può portare ad una riproduzione cellulare scorretta e alla formazione di un carcinoma) ha fatto sì che oggi si parli di radioattività con toni molto allarmistici.

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Vi sono addirittura persone che rifiutano determinati esami medici (come TAC o PET) per il fatto che si utilizzano radiazioni ionizzanti. In realtà la radioattività è un fenomeno della vita quotidiana, col quale conviviamo serenamente da sempre: isotopi radioattivi sono presenti nel cibo che mangiamo (il Potassio 40, in particolare, si trova nelle banane), nell’aria che respiriamo e anche all’interno dei nostri corpi (tanto che per datare i resti umani defunti gli archeologi si affidano, tra le altre cose, ad alcuni radioisotopi, come il Carbonio 14).
Un essere umano in media assorbe tra i 2 e i 3 mSv (milliSievert) di dose efficace ogni anno dall’ambiente che lo circonda, sebbene alcuni luoghi del pianeta presentino livelli di radioattività ambientale molto più alti. E no, non parliamo solo della zona di esclusione di Chernobyl, dove la media è di 6-8 mSv/anno, ma anche di alcuni quartieri di Roma, di Orvieto e della provincia di Viterbo (6-7 mSv/anno); dell’altopiano del Colorado; delle spiagge di Guarapari in Brasile; della città di Ramsar in Iran.
Il corpo umano si è adattato a sopravvivere alla radioattività ambientale, e pertanto a dosaggi bassi non vi è evidenza di danni per la salute. Bisogna passare diversi anni ad assorbire dosi superiori a 100 mSv per vedere un incremento misurabile della probabilità di contrarre un tumore (a distanza di decenni), e servono dosi superiori a 1 Sv/h per avere avvelenamento da radiazioni (dosi simili si sono avute solo in rari casi di incidenti radiologici gravissimi, come Chernobyl o Goiania).

Sebbene poi le radiazioni siano effettivamente “invisibili”, sono uno dei fenomeni che oggi sappiamo rilevare con maggiore precisione. Su internet è possibile acquistare dei rilevatori discreti con poche decine di euro, e dei rilevatori professionali con 500 euro.
Le radiazioni ionizzanti non compaiono nemmeno nei primi 30 fattori di rischio per la salute umana, a differenza dell'inquinamento, del fumo (anche passivo!) e delle diete squilibrate.

La scoperta della radioattività

La prima forma di radiazione con la quale l’uomo si è trovato ad avere a che fare è… semplicemente la luce visibile! Essa infatti altro non è che radiazione elettromagnetica, la cui lunghezza d’onda (compresa tra 400 e 700 nm) la rende in grado di impressionare la retina dell’occhio. Altri tipi di radiazione elettromagnetica sono le onde Radio, i raggi infrarossi, i raggi ultravioletti e i raggi X. Questi ultimi, scoperti da Wilhelm Conrad Roentgen nel 1895 sono il primo esempio di radiazione ionizzante, cioè sufficientemente potente da strappare un elettrone ad un atomo, rendendolo chimicamente instabile.

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Antoine Henri Becquerel si può considerare il padre della radioattività.

Nel 1896, Antoine Henri Becquerel, facendo esperimenti sui raggi X, scoprì la radioattività naturale dell’Uranio; in seguito i coniugi Curie riuscirono ad isolare due ulteriori elementi radioattivi: il Polonio e il Radio.
Lo stesso gruppo di ricerca scoprì anche che le radiazioni potevano essere costituite da particelle, oltre che da onde elettromagnetiche, e battezzò “alfa” le particelle con carica positiva, “beta” le particelle con carica negativa e “gamma” le particelle neutre.

Le particelle emesse dal decadimento

Rispetto alla fine del diciannovesimo secolo, di passi avanti ne abbiamo fatti parecchi: non distinguiamo più i fenomeni radioattivi solo sulla base della carica della particella emessa, ma anche sulla base del tipo di particella e della sua energia, e abbiamo anche una serie di convincenti spiegazioni teoriche del perché i decadimenti radioattivi avvengono (quasi tutte basate su fenomeni quantistici).

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Particelle alfa

Oggi sappiamo che le particelle alfa sono composte da due protoni e due neutroni: sono, in sostanza, nuclei di Elio 4. Si tratta di un modo di decadimento tipico degli elementi più pesanti (come l’Uranio e il Polonio) e vengono emesse dal nucleo originario tramite il cosiddetto “quantum tunneling” – uno degli effetti più bizzarri previsti dalla meccanica quantistica.

Particelle beta

Le particelle beta invece possono essere elettroni (o più raramente altre particelle chiamate positroni), e vengono prodotte quando un neutrone si trasforma in protone (o viceversa); un fenomeno concettualmente simile è quello della cattura elettronica, in cui un elettrone viene invece assorbito da un protone, che si trasforma quindi in un neutrone. In tutti questi processi vengono anche emessi dei neutrini – particelle piccolissime, ma fondamentali per garantire che alcune leggi fisiche vengano rispettate.

Particelle gamma

Le particelle gamma invece sono fotoni (quindi radiazione elettromagnetica) ad alta energia: per la precisione, oggi consideriamo “raggi X” quelli con lunghezze d’onda comprese tra 1 pm e 10 nm, che vengono prodotti dai salti degli elettroni tra un livello energetico e l’altro, e “raggi gamma” quelli con lunghezze d’onda inferiori a 1 pm (quindi con energie ancora maggiori), che vengono prodotti unicamente da reazioni nucleari.
Oggi sappiamo inoltre che alcuni elementi possono anche decadere emettendo neutroni (lo fanno ad esempio il Berillio 13 e l’Elio 5) o addirittura protoni (questa tipologia di decadimento è più rara, ma avviene ad esempio nel Cobalto 53).

Cosa significa "tempo di dimezzamento"?

Gli elementi soggetti a decadimento radioattivo hanno tutti la caratteristica di essere instabili; questo però non significa che lo siano tutti allo stesso modo: alcuni si mantengono in uno stato instabile anche per miliardi di anni; altri resistono per pochi miliardesimi di secondo.

Dal momento che i decadimenti radioattivi seguono le leggi della meccanica quantistica – sono fenomeni intrinsecamente probabilistici – e pertanto è impossibile prevedere con certezza quando un certo nucleo andrà incontro a decadimento; se però si hanno a disposizione molti atomi uguali, si può fare una media dei tempi di decadimento e ricavare così un tempo-scala: quest’ultimo viene detto “tempo di dimezzamento”, e corrisponde al tempo entro il quale metà dei nuclei è decaduta in una forma più stabile.
Dopo un tempo di dimezzamento avrò dunque la metà dei radionuclidi con cui ero partito; dopo due tempi di dimezzamento ne avrò un quarto; dopo tre ne avrò un ottavo, e via dicendo: la legge segue una progressione esponenziale negativa.
L’inverso del tempo di dimezzamento è l’attività: quest’ultima è una grandezza che indica il numero di decadimenti in un’unità di tempo. L’unità di misura dell’attività è il Becquerel (Bq): 1 Bq corrisponde ad un decadimento radioattivo per secondo. Si può intuire facilmente che più è alta l’attività di un elemento, più basso sarà il suo tempo di dimezzamento.

Energia trasferita e danno biologico

L’attività di una sostanza può essere un parametro interessante per i fisici, ma ci dice molto poco su quanto quella sostanza sia pericolosa per la salute umana: il potenziale nocivo dipende infatti da vari fattori, il primo dei quali è la quantità di energia che la sostanza radioattiva trasferisce ai tessuti organici. Questa quantità si chiama “dose assorbita” e si misura in Gray (Gy): 1 Gy corrisponde ad un’energia di 1 Joule che viene assorbita da 1 kg di materia.

A parità di dose assorbita, il corpo può reagire diversamente a seconda del tipo di radiazione e della sorgente; alcuni tessuti organici, inoltre, sono più vulnerabili di altri. Per questo è stata introdotta un’ulteriore unità di misura, chiamata Sievert (Sv), che misura la “dose efficace”; quest’ultima è data dalla dose assorbita moltiplicata per un coefficiente che dipende dalla sorgente e poi ancora per un coefficiente che dipende dal tessuto irraggiato. Il Sievert dà quindi una misura abbastanza fedele della probabilità di danno biologico.

Esempio 1:

Una particella alfa trasporta migliaia di volte più energia di una particella beta, ma viene fermata facilmente dalla nostra pelle, dunque l’Uranio ha una dose efficace molto bassa in caso di irraggiamento esterno, ma molto alta in caso di irraggiamento interno (dovuto ad esempio ad inalazione o ingestione).

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I decadimenti alfa sono talmente energetici da scaldare il materiale, come si può vedere dall’incandescenza di questa sfera di Plutonio 238.

Esempio 2:

L’emissione beta del Trizio ha un’energia di 19 keV (molto bassa), mentre l’emissione beta dello Iodio 131 ha invece un’energia di 606 keV (assai più elevata); inoltre il trizio è chimicamente idrogeno, quindi tende a disperdersi un po’ ovunque nel corpo con le molecole d’acqua, mentre lo Iodio viene captato dalla ghiandola tiroide, dove tende a concentrarsi. Per questo motivo, a parità di attività, lo Iodio 131 comporta una dose efficace molto più alta.

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