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Il Toki Pona è una lingua artificiale creata nel 2001 dalla traduttrice canadese Sonja Lang, composta da un vocabolario di circa 120-137 parole e utilizzando solo 14 fonemi – 9 consonanti (j k l m n p s t w) e 5 vocali (a e i o u) – rende la pronuncia accessibile a persone di diverse lingue madri. Il nome "Toki Pona" deriva da "toki" (parlare, lingua) e "pona" (buono, semplice), traducibile come "lingua del bene" o "lingua semplice". Lang, linguista e esperantista, ha sviluppato questa lingua ispirandosi alla filosofia taoista e al minimalismo, con l'intento di semplificare il pensiero e promuovere una comunicazione essenziale.

Oltre il ridotto numero di vocaboli e fonemi, questa lingua possiede altre particolarità che la rendono molto semplice: una composizione delle sillabe fatta da consonante + vocale (come in italiano, l’assenza del verbo essere e solo tre numeri: “uno”, “due” e “tanti”). Le parole sono polisemiche, motivo per cui il significato preciso dipende dal contesto. Facciamo un esempio: "jan" significa "persona", mentre "jan utala" si riferisce a un "combattente" o “soldato” e jan lili “piccolo umano”, “bambino”; “olin” è traducibile con “amore”, “rispetto” o “compassione". Per la costruzione delle frasi, invece, la particella "li" separa il soggetto e il predicato:
soweli li moku. = Il gatto mangia.
La negazione si forma aggiungendo la particella ala:
mi lape ala. = Non sto dormendo.
Il Toki Pona è una lingua ispirata alla filosofia taoista, e la sua creatrice lo definisce un esercizio mentale e filosofico. Così come meditare, parlarlo ti obbliga a scegliere con cura ogni parola, a rallentare, a trovare il significato nascosto delle cose, attraverso un processo che ci costringe a pensare alle cose non per etichette, ma per funzioni e qualità. È anche nata una vivace comunità globale dedicata a questo particolare idioma: ci sono gruppi attivi su Reddit, Discord. Esistono romanzi interamente scritti in Toki Pona, ma anche traduzioni del Piccolo Principe. Addirittura ci sono genitori che la insegnano ai figli come seconda lingua “emozionale”, per insegnare che forse "meno è davvero più".