
La Global Sumud Flotilla, che il 1° ottobre 2025 è stata intercettata dalla marina israeliana, non è stata la prima spedizione a tentare di rompere il blocco navale per portare aiuti umanitari a Gaza. Il primo tentativo risale al 2010 con la Freedom Flotilla I, intercettata dalle forze israeliane in acque internazionali. Negli scontri durante l’abbordaggio, i soldati uccisero nove attivisti. Altri tentativi hanno avuto luogo negli anni successivi e, sebbene siano stati sempre bloccati dalla marina di Israele, non si sono più verificati scontri a fuoco.
Sin dal 2007 Israele ha imposto il blocco terrestre e marittimo sulla Striscia di Gaza, impedendo poi dal 2009 l’accesso via mare e controllando le merci e le persone in ingresso via terra. Il blocco ha ricevuto forti critiche per la sua mancata legittimità secondo il diritto internazionale e perché ha provocato pesanti conseguenze dal punto di vista sociale ed economico. Secondo le autorità israeliane questa misura è necessaria per impedire ad Hamas di approvvigionarsi di armi, ma lo Stato ebraico è stato più volte accusato di averlo usato anche per affamare la popolazione civile. Per questo motivo, in diverse occasioni gli attivisti internazionali hanno cercato di forzare il blocco navale e consegnare aiuti umanitari alla popolazione.
Il blocco israeliano della Striscia di Gaza
Israele ha imposto un blocco alla Striscia di Gaza a partire dal 2007, quando Hamas ha preso il controllo politico del territorio dopo una contesa con il partito al-Fatah.

Va ricordato che Israele ha occupato la Striscia di Gaza nel 1967, durante la Guerra dei sei giorni, e ha ceduto il controllo su parte del territorio all’Autorità nazionale palestinese con gli Accordi di Oslo del 1993, conservando però alcuni insediamenti all’interno della Striscia. Nel 2005 il governo guidato da Ariel Sharon decise di smantellare tutti gli insediamenti (la decisione provocò le dimissioni dell’allora ministro delle finanze e attuale primo ministro, Benjamin Netanyahu). Due anni più tardi, in seguito all’ascesa di Hamas, Israele impose il blocco totale della Striscia, con la motivazione di voler impedire al movimento islamista di approvvigionarsi di armi e materiali. A Gaza, da allora, possono entrare solo merci e persone che transitano attraverso i valichi controllati da Israele. Un solo valico, quello di Rafah, è controllato dall’Egitto, che a sua volta impone forti restrizioni al transito di beni. Inoltre, nessuna merce può arrivare nella Striscia via mare, perché le navi militari israeliane pattugliano l’area davanti alle coste, impendendo a qualsiasi imbarcazione di passare.

Il blocco è criticato da numerosi giuristi e organizzazioni internazionali, che hanno fatto notare, anzitutto, come dal punto di vista del diritto internazionale la legittimità sia dubbia, giacché il blocco è considerato un atto di guerra e non esiste una guerra formale tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese. Inoltre, il blocco ha reso molto più grave la crisi sociale ed economica della Striscia, trasformandola in una sorta di prigione a cielo aperto. L’afflusso di merci è fortemente diminuito, con conseguente aumento della povertà e della disoccupazione, il che, per altro, crea un terreno fertile per lo sviluppo di movimenti estremisti. Israele, però, replica alla critiche sostenendo la legittimità del blocco.
La Freedom Flotilla del 2010
In diverse occasioni attivisti internazionali hanno organizzato spedizioni per rompere il blocco di Gaza e portare beni e materiali alla popolazione. Lo scopo di queste missioni è umanitario, mirando ad aprire un corridoio che consenta di portare sollievo ai cittadini di Gaza, ma anche politico, perché vuole attirare l’attenzione sugli effetti del blocco israeliano.
Il primo tentativo ebbe luogo nel 2010, quando una flottiglia di sei navi, la Freedom Flotilla Coalition, salpò da Cipro per raggiungere le coste gazane. A bordo c’erano 610 attivisti, dei quali 380 turchi e gli altri appartenenti a numerose nazionalità, inclusi sei italiani. Le navi trasportavano aiuti umanitari e materiali edili, necessari per ricostruire gli edifici distrutti nella guerra del 2008-09. Le autorità israeliane dichiararono che non avrebbero consentito alcuna violazione del blocco navale, per evitare che a Gaza arrivassero materiali da loro considerati pericolosi, come il calcestruzzo (che, secondo Israele, serviva ad Hamas per costruire bunker). Per tale ragione, il 31 maggio 2010 i soldati dello Shayetet 13, l’unità speciale di incursori della marina, abbordarono le navi della Flotilla in acque internazionali. Su cinque imbarcazioni non si verificarono incidenti, ma sulla più grande, la Mavi Marmara, i soldati aprirono il fuoco sugli attivisti.

La dinamica esatta dell’evento non è mai stata chiarita, perché le versioni discordanti. Secondo le autorità di Israele, gli attivisti cercarono di resistere con coltelli e spranghe di ferro; secondo gli organizzatori della missione, i soldati aprirono il fuoco senza essere stati provocati. Quel che è certo è che nove attivisti restarono uccisi: 8 turchi e un americano; alcuni soldati riportarono ferite. L’incidente suscitò forti reazioni in tutto il mondo e i governi di molti Paesi, inclusi quelli occidentali, criticarono Israele, sottolineando anche che non aveva alcun diritto di intercettare delle navi in acque internazionali, nelle quali tutte le imbarcazioni hanno diritto di navigare. Durissima fu la reazione della Turchia, che accusò il governo di Tel Aviv di “terrorismo di Stato”. I rapporti tra i due Paesi si deteriorano fortemente e ancora oggi non sono ristabiliti.
Altri tentativi di rompere il blocco
L’episodio del 2010 non ha scoraggiato altri attivisti da tentare missioni simili, al punto che è nata una organizzazione , la Freedom Flotilla Coalition, per promuoverle. In più occasioni, la Coalition e altre organizzazioni hanno promosso spedizioni per portare aiuti umanitari a Gaza e, sebbene in nessun caso le navi abbiano raggiunto la destinazione, hanno acceso i riflettori sul blocco navale e sulle condizioni della Striscia. Tra i tentativi principali ricordiamo i seguenti:
- Freedom Flotilla II “Stay Human”. Composta da 10 navi, avrebbe dovuto salpare nel 2011 ma, a causa di alcuni incidenti (o sabotaggi, secondo gli organizzatori) e delle pressioni internazionali, non partì. Solo una nave cercò di raggiungere Gaza e fu intercettata dalle forze israeliane.
- Freedom Flotilla III, composta da 4 navi, una svedese (Marianne) e tre greche, partita nel 2015. Più precisamente, la Marianne partì dalla Svezia il 10 maggio e, dopo aver toccato i porti di alcune città, raggiunse Atene e si congiunse con le navi greche. A bordo della flottiglia c’erano attivisti ed esponenti politici di numerosi Paesi, tra i quali l’ex presidente tunisino Moncef Marzouki. La spedizione fu intercettata il 30 giugno dalla marina israeliana, che arrestò gli attivisti e, dopo averli portati in Israele, li espulse. Non si verificarono scontri armati.
- Women Boat to Gaza, una nave con a bordo 26 attiviste, salpata nel 2016 e intercettata dalle forze israeliane.

Altri tentativi di rompere il blocco hanno avuto luogo dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 e l’inizio del genocidio. Una delle iniziative, promossa nel giugno 2025, prevedeva di raggiungere Gaza via terra dall’Egitto, ma è stata bloccata dal governo egiziano. Nessun tentativo ha ottenuto la stessa visibilità mediatica della Global Sumud Flotilla.