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4 Gennaio 2025
13:00

Storia di una rocambolesca spedizione artica in mongolfiera

"Dovremo essere considerati pazzi?" così scrisse l'esploratore Salomon Andrée nel suo diario di spedizione al Polo Nord pochi giorni prima della sua morte. Lui e i suoi assistenti riuscirono a sopravvivere per due mesi, ma la spedizione era destinata a fallire sin dai primi istanti.

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Storia di una rocambolesca spedizione artica in mongolfiera
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La fine del volo. Credits: Istituto di ricerca polare Scott

No, la storia che stiamo per raccontarvi non è uscita da un romanzo di Jules Verne: nel 1897 ci fu davvero una spedizione artica in mongolfiera diretta al Polo Nord, e fu rovinosa dall'inizio alla fine per diversi motivi. Il pallone a idrogeno e coloro che erano a bordo, infatti, si schiantarono sulla banchina artica, e per ben 33 anni nessuno seppe dove fossero finiti, finché nell'agosto del 1930 l'aviatore e giornalista del Corriere della Sera Vittorio Beonio Brocchieri scoprì i resti del loro accampamento e cinque preziosi rullini di pellicola che documentavano i due mesi di sopravvivenza estrema della malcapitata spedizione.

L'idea fu dell'ambiziosissimo – e anche un po' folle – ingegnere svedese Salomon Andrée, che con i suoi due compagni di viaggio Nils Strindberg e Knut Frænkel partirono dalle coste dell'isola di Danes, in Norvegia, per non fare mai più ritorno in patria.

Salomon Andrée e l'idea della mongolfiera

Salomon Andrée non era proprio quello che si dice "un uomo comune". Oltre a essere ingegnere meccanico, fisico ed esploratore, era anche un custode: poco dopo essersi laureato alla facoltà di ingegneria approdò alla Centennial Exposition di Philadelphia, e lì lavorò come custode del padiglione svedese. Proprio allora incontrò l'aeronauta americano John Wise, e con lui la sua grande passione per i palloni aerostatici.

A 43 anni, nel 1878, tornò in Svezia, non prima di aver fatto una capatina a Parigi, centro di eccellenza per la costruzione di palloni aerostatici. Lì acquistò la sua prima mongolfiera, Svea, su cui condusse svariati esperimenti che gli sarebbero stati fondamentali per il futuro.

All'epoca era la Norvegia (politicamente sotto la Svezia) ad avere in mano le redini dell'esplorazione artica, e il governo e l'élite scientifica svedese desideravano spodestare il Paese vicino e arrivare sul podio artico in fretta, ritenendosi la più importante e centrale delle nazioni scandinave. Andrée emerse sin da subito in quel contesto, spiccando agli occhi di geografi, meteorologi e ingegneri a una conferenza del 1895 all'Accademia reale svedese delle scienze con il progetto di una missione esplorativa in mongolfiera nei territori artici.

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Operaie parigine lavorano alla tela del pallone aerostatico Örnen commissionata da Andrée. Credits: Tekniska museet

Andrée convinse gli uomini che aveva davanti del fatto che i palloni a idrogeno francesi fossero di avanzata affidabilità e i più ermetici d'Europa, e non mancò di ricordare che alcuni di essi erano rimasti pieni di idrogeno per oltre un anno senza un'apprezzabile perdita di galleggiabilità. Riguardo l'idrogeno, invece, riempire il pallone sul punto di decollo sarebbe stato semplice con l'aiuto di unità mobili di produzione del gas. E poi, la possibilità di dirigere il pallone era garantita dai suoi esperimenti con le corde di trascinamento usate sullo Svea, che avrebbero garantito un angolo rispetto al vento di 27°.

Infine, l'ingegnere rassicurò tutti dicendo che l'estate sarebbe stato il momento migliore per iniziare quell'esplorazione, perché il sole di mezzanotte (il fenomeno tipico delle regioni polari in cui il sole d'estate resta visibile 24 ore su 24) avrebbe concesso visibilità per tutto il giorno, dimezzando il tempo richiesto per il volo ed evitando il problema di ancorarsi durante la notte.

Andrée assicurò che se la pioggia o la neve fossero cadute sul pallone le precipitazioni si sarebbero sciolte con temperature sopra gli 0 °C e sarebbero state soffiate via sotto gli 0 °C, dato che il pallone viaggiava più lento del vento e quindi non ci sarebbe stato alcun ostacolo al suo viaggio in mongolfiera.

Incredibilmente (o forse nemmeno troppo), riuscì a convincere la platea, che approvò il preventivo di spesa di 130.800 corone (circa 750.000 euro attuali). Il re Oscar II fu così felice per la notizia che finanziò il progetto con 30.000 corone, e persino Alfred Nobel, il magnate della dinamite e fondatore del premio Nobel, inviò denaro ad Andrée, trepidante per la sua ascesa verso i cieli.

Nessuno di loro però sapeva quanto fossero rigide le tempeste estive in quel remoto e bianchissimo lembo della Terra, e ancor meno sapevano dell'alta umidità e delle nebbie di quelle aree. Ma ormai il progetto era partito, e l'11 luglio 1897 Andrée e i suoi due connazionali Nils Strindberg e Knut Frænkel partirono a bordo della mongolfiera Örnen (l'Aquila), che era stata fabbricata a Parigi.

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L’equipaggio della spedizione condannata: Nils Strindberg, Knut Frænkel e Salomon Andrée seduto.

La partenza della mongolfiera e l'inesorabile caduta

Fino all'ultimo l'ingegnere affermò con convinzione che il pallone sarebbe sopravvissuto alle rigide temperature artiche, e che il mezzo sarebbe stato manovrato e controllato con lunghe corde che sarebbero state trascinate sul ghiaccio.

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Uno speciale hangar per gonfiare il pallone fu inviato al punto di lancio sull’isola norvegese di Danes, da cui è partita la spedizione. Stampa fotocromatica dell’hangar e della mongolfiera.

L'Aquila (che pesava circa 3 tonnellate) era partita da pochi minuti, ma persero due delle tre corde di guida – che pesavano mezza tonnellata ciascuna – e finì molto più in alto del dovuto. A quell'altezza le cuciture della tela si congelarono e la mongolfiera cominciò a perdere gas. Vedendo una situazione del genere, qualsiasi ingegnere assennato avrebbe deciso di atterrare al più presto e annullare la spedizione. Sfortunatamente Andrée era estremamente cocciuto, e con la pressione del popolo svedese tutta su di sé decise comunque di proseguire (nonostante sapesse bene che il volo ormai non aveva alcuna possibilità di successo), condannando l'intero team al destino a cui sarebbe andato incontro.

In totale riuscirono a volare per poco più di 10 ore, poi seguirono più di 40 ore di salite e discese prima che la mongolfiera, appesantita dall'umidità, andasse completamente alla deriva e si schiantasse contro i ghiacci artici. Miracolosamente, però, i tre esploratori ne erano usciti indenni. Se fosse già esistita la radio senza fili avrebbero potuto chiamare la base, ma sfortunatamente erano soli soletti nel bel mezzo del Polo Nord, e davanti ai loro occhi c'era solo una pittoresca distesa di ghiaccio con una mongolfiera sdraiata su un fianco al centro.

Due mesi nei ghiacci

Insomma, per i tre esploratori non restava altro che caricare tutto il possibile sulle slitte e andare verso Sud, nella speranza che qualcuno li trovasse prima che morissero assiderati (l'abbigliamento non era propriamente adeguato per quella situazione, come potrete immaginare).

Nonostante la sventurata situazione, riuscirono ad arrivare considerevolmente lontano: per ben due mesi riuscirono a sopravvivere grazie ad alcuni oggetti di bordo (tenda, ciaspole, sci, strumenti da pesca e via dicendo) e alle enormi scorte di cibo che avevano con sé grazie agli sponsor, che gli avevano donato persino champagne e birra. Ma questa ricchezza era anche una zavorra, e ben presto si lasciarono indietro le casse con il contenuto meno essenziale e tutto l'equipaggiamento che sovraccaricava inutilmente le slitte. Per sopravvivere preferirono dedicarsi alla caccia alle foche e ad altri animali polari.

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Scatti di Nils Strindberg esposti al Tekniska museet

Arrivati a un certo punto, il freddo era tale che i tre costruirono una sorta di casetta sulla banchisa con tutti i materiali che avevano a disposizione, ma che durò pochissimi giorni perché il ghiaccio sottostante iniziò a rompersi e dovettero proseguire, arrivando alla piccola isola di Kvitøya. Ormai il gelo e la stanchezza erano diventati insostenibili, e morirono assiderati.

Ma com'è che si sanno tutti questi dettagli? Grazie al "diario visivo" del fotografo di bordo, Strindberg, che aveva utilizzato la sua macchina fotografica cartografica (doveva servire per mappare la regione artica dall'alto) per documentare i loro giorni in quella distesa di bianco a perdita d'occhio. Ma non solo grazie alle fotografie, perché tutti e tre tenevano un diario personale. Strindberg annotava dettagli con un'ottica più personale e profonda, mentre Andrée e Frænkel erano più freddi e precisi, e registravano i loro spostamenti geografici.

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In rosso si può osservare quanta strada fecero i tre esploratori dopo l’incidente

Nelle ultime pagine del diario di viaggio Andrée si lasciò andare a un pensiero molto personale, e dei suoi compagni scrisse:

Con compagni come quelli che ho io si dovrebbe essere in grado di cavarsela in, direi, qualsiasi circostanza.

1930: vengono ritrovati i resti della spedizione

Per ben 33 anni nessuno seppe che cosa era successo agli esploratori, perché nessuno era riuscito a rintracciarli, alimentando un velo di mistero e varie leggende metropolitane su quanto gli fosse accaduto.

I loro resti vennero ritrovati molti anni dopo dalla spedizione norvegese Bratvaag guidata dal dottor Gunnar Horn, che era finita nell'area di  Kvitøya – ufficialmente – per la caccia alle foche e lo studio dei ghiacciai e dei mari nella regione artica delle Svalbard, ma – non ufficialmente – in realtà aveva una missione segreta: l'annessione dell'isola Victoria alla Norvegia.

In ogni caso, gli uomini della spedizione avvistarono prima una barca sepolta sotto un enorme cumulo di neve, e poco a poco i corpi dei tre sfortunati esploratori (e un mese dopo circa anche i loro diari) ricercati da un trentennio. In poco tempo i loro corpi vennero spediti a Stoccolma per le pubbliche esequie, e i loro oggetti di viaggio finirono nei musei del Paese.

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Le pubbliche – e molto sentite – esequie dei tre esploratori.

Oggi, il promontorio dove sbarcarono e furono ritrovati è noto come Andréeneset, dove un monumento in cemento commemora la loro impresa.

Di questa agghiacciante ma avventurosa storia una cosa è certa: Salomon Andrée era un uomo che preferiva la morte al fallimento, ma talvolta bisogna ricordarsi di scendere dai propri sogni, perché c'è sempre tempo per ripartire.

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Veronica Miglio
Storyteller
Innamorata delle parole sin da bambina, ho scelto il corso di lingue straniere per poter parlare quante più lingue possibili, e ho dato sfogo alla mia vena loquace grazie alla radio universitaria. Amo raccontare curiosità randomiche, la storia, l’entomologia e la musica, soprattutto grunge e anni ‘60. Vivo di corsa ma trovo sempre il tempo per scattare una fotografia!
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