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14 Settembre 2023
14:00

Chi erano i kamikaze, i piloti suicidi del Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale

La storia dei kamikaze giapponesi può essere interpretata in modi molto diversi: giovani eroi che si lanciavano contro il nemico urlando “lunga vita all’imperatore” o fanatici che preferivano morire e seminare morte piuttosto che accettare una sconfitta?

A cura di Erminio Fonzo
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Chi erano i kamikaze, i piloti suicidi del Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale
kamikaze giapponesi

Spesso i giornali, quando avvengono attentati suicidi, definiscono “kamikaze” i terroristi. Il termine fa riferimento ai piloti giapponesi che negli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale si schiantavano deliberatamente con i loro aerei contro i mezzi militari degli Stati Uniti. I kamikaze erano giovani volontari, animati da un forte nazionalismo, ma non sempre entusiasti di sacrificare la propria vita. Il loro impiego fu il tentativo estremo del Giappone di evitare la sconfitta e l’occupazione del proprio territorio.

Nei primi tempi gli attacchi suicidi ebbero un discreto successo, ma gli americani introdussero rapidamente contromisure per limitare i danni. Così il sacrificio dei giovani piloti non valse a salvare il Giappone dalla sconfitta. I kamikaze, inoltre, erano piuttosto diversi dai terroristi suicidi di oggi.

Cosa significa “kamikaze”

La parola kamikaze significa “vento divino” e trae origine da un episodio della storia del Giappone. Nel XIII secolo i mongoli tentarono due volte di invadere il territorio giapponese, ma in entrambe le occasioni la loro flotta fu distrutta da tifoni sviluppatisi presso la costa. I giapponesi pensavano che i tifoni fossero stati scatenati dalla volontà divina. Nella Seconda Guerra Mondiale i piloti suicidi, che si lanciavano con i loro aerei carichi di esplosivo contro navi e velivoli del nemico, avrebbero dovuto essere il “vento divino” capace di fermare gli americani, come il vento del XIII secolo aveva fermato i mongoli.

Il tifone divino che distrugge la flotta mongola. Raffigurazione del 1847
Il tifone divino che distrugge la flotta mongola in una raffigurazione del 1847.

Le peculiarità dei kamikaze

In guerra ci sono stati sempre soldati che, piuttosto che essere presi prigionieri, hanno preferito morire, talvolta facendosi esplodere con una bomba per infliggere quanti più danni possibili al nemico. Anche durante la Seconda Guerra Mondiale alcuni soldati preferivano il suicidio alla cattura e alla sconfitta. Tra i giapponesi la prassi era molto diffusa, perché per la loro ideologia, basata sul codice d’onore del bushido e sulla tradizione dei samurai, la resa era disonorevole. Il caso dei kamikaze però è diverso da quello degli altri soldati suicidi, essenzialmente per due ragioni:

  • i piloti partivano deliberatamente con l’intenzione di morire per infliggere danni al nemico;
  • erano organizzati in apposite unità e avevano una precisa funzione strategica: la morte non serviva a evitare il disonore o la cattura, ma a danneggiare il nemico.

Le missioni suicide contro le navi americane

Le missioni suicide iniziarono nell’ottobre del 1944, quando per il Giappone la guerra si era trasformata in una catastrofe. Essendo più difficili da intercettare rispetto ai normali attacchi aerei, le missioni dei kamikaze furono un tentativo in extremis di fermare il nemico.

La prima “unità di attacco speciale”, composta da 24 piloti, fu costituita dall’aviazione della marina (che era separata da quella dell’esercito) il 20 ottobre 1944, nel corso della battaglia del Golfo di Leyte. Nei giorni successivi l’unità lanciò diversi attacchi e riuscì a infliggere danni considerevoli agli americani, compreso l’affondamento di una portaerei leggera. I risultati spinsero la marina a formare altri reparti di kamikaze. Per ridurre i costi, furono progettati appositi aerei, privi dei sistemi di atterraggio. Inoltre, per motivare i giovani, prima della partenza delle missioni era prassi organizzare una cerimonia, nel corso della quale i piloti indossavano la hachimaki, la tipica fascia con i simboli del Giappone.

Un kamikaze riceve la hachimaki prima di partire
Un kamikaze riceve la hachimaki prima di partire.

Gli attacchi kamikaze raggiunsero la massima intensità in occasione della battaglia di Okinawa combattuta tra aprile e giugno 1945. Le ultime missioni suicide ebbero luogo nell’agosto del 1945 in Manciuria contro le truppe dell’Unione Sovietica, che aveva dichiarato guerra al Giappone l’8 agosto precedente.

Non solo aerei: gli altri attacchi suicidi

Oltre agli aerei, la marina del Giappone schierò piccole imbarcazioni, come i motoscafi shynio e i siluri guidati kaiten, che un pilota suicida dirigeva verso le navi nemiche. Attacchi kamikaze, inoltre, furono usati anche dall’aviazione dell’esercito. Nel 1944 le forze armate statunitensi introdussero i potenti bombardieri B-29 e l’esercito nipponico addestrò i suoi piloti a schiantarvisi contro con i loro aerei.

Nel complesso, gli attacchi suicidi furono più di 3800, dei quali circa 2550 lanciati da piloti della marina e 1300 da piloti dell’esercito.

Un siluro kaiten (credit Nick-D)
Un siluro kaiten (credit Nick–D).

Le motivazioni dei kamikaze

I kamikaze erano volontari e la loro età media era 19 anni. I “candidati” erano più numerosi degli aerei disponibili. Ma perché tanti giovani sceglievano di morire?

La letteratura e i film in genere descrivono i kamikaze come ragazzi entusiasti, che si lanciavano contro il nemico urlando “banzai(letteralmente “diecimila anni”, nel senso di “l’imperatore possa vivere per diecimila anni”). La realtà, però, è più articolata e i kamikaze erano animati da una pluralità di motivazioni.

Certamente, il nazionalismo estremo del Giappone e il culto dell’imperatore giocarono un ruolo importante nel convincere i giovani a morire. Contavano, però, anche le pressioni che i piloti subivano dai comandanti e dai loro stessi compagni, rispetto ai quali non volevano mostrarsi inferiori, e il desiderio di rendere onore alle proprie famiglie. Insomma, talvolta la morte era una scelta obbligata, alla quale non tutti si sottoponevano volentieri.

Piloti kamikaze nel maggio del 1945
Piloti kamikaze nel maggio del 1945.

Gli effetti degli attacchi suicidi

Nei primi mesi gli attacchi kamikaze causarono problemi seri alle forze armate statunitensi, che si trovarono di fronte a una tattica sconosciuta. Gradualmente, però, gli americani introdussero contromisure efficaci, come il posizionamento di navi e aerei a protezione della flotta principale, e limitarono i danni. Nel complesso, le missioni suicide provocarono la morte di circa 7000 soldati nemici e l’affondamento di un numero di navi stimato tra 44 e oltre 80. Tra esse vi erano alcune portaerei leggere e altre unità di medie dimensioni, ma nessuna portaerei pesante. Inoltre, solo una minoranza degli attacchi suicidi andava a segno: secondo stime americane, dei 2550 attacchi lanciati contro le navi, solo 475, pari al 18,6%, colpirono il bersaglio. Quel che è più importante, però, è che i kamikaze non impedirono la sconfitta del Giappone, avvenuta in seguito allo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki da parte degli USA il 6 e 9 agosto 1945.

Attacco kamikaze alla portaerei Essex, novembre 1944
Attacco kamikaze alla portaerei Essex, novembre 1944.

Le differenze con gli attentatori suicidi di oggi

Oggi il termine “kamikaze” è usato spesso a proposito dei terroristi che si lasciano esplodere deliberatamente per uccidere quante più persone è possibile. Il fenomeno, però, è diverso da quello dei piloti giapponesi. Questi ultimi, infatti, effettuavano i loro attacchi nel corso di una guerra regolare e colpivano solo obiettivi militari. I terroristi suicidi, invece, seminano morte indiscriminatamente e non hanno obiettivi strategici, ma vogliono solo incutere terrore. Non a caso, in Giappone non sono chiamati mai kamikaze, ma, più genericamente, “terroristi autoesplodenti”.

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