
Notriphobia è un termine comparso negli ultimi anni sui social media e nelle community online, per descrivere una sensazione crescente e diffusa come la paura o l’ansia di non riuscire a viaggiare “abbastanza” o “come gli altri”. Dal punto di vista sociologico, non si tratta di una fobia clinicamente riconosciuta, ma di un costrutto culturale che intercetta una tensione esistenziale propria della contemporaneità. In un momento storico in cui il viaggio è stato trasformato in esperienza identitaria, prestazionale e condivisibile, la notriphobia si presenta come una risposta ansiosa alla pressione simbolica e sociale della mobilità. Dietro questa paura non c’è solo il desiderio di evasione o di svago, ma la sensazione profonda di essere esclusi da un orizzonte di valore e riconoscimento, sempre più legato al muoversi, esplorare, documentare.
Cos’è la notriphobia: il viaggio come capitale tra mobilità e privilegio
Nel nostro immaginario collettivo, il viaggio viene spesso vissuto come una scelta individuale e un diritto universale, un’attività alla portata di tutti e tutte. Tuttavia, questa rappresentazione rischia di occultare le diseguaglianze strutturali che determinano l’accesso reale alla mobilità: viaggiare richiede risorse economiche, tempo libero, sicurezza, documenti, rete sociale, condizioni non equamente distribuite nella popolazione. La notriphobia è il termine social per descrivere la paura di non viaggiare abbastanza o di non farlo come lo fanno gli altri. Riflette la pressione sociale a viaggiare come esperienza identitaria e da condividere, tipica dei nostri tempi.
Secondo Urry – “La mobilità è diventata la norma, e l’immobilità lo stigma” (Sheller & Urry, 2006) – il viaggio non è solo uno spostamento fisico, ma anche un modo per distinguersi, mostrare il proprio status e accumulare valore sociale, proprio come accade con altri beni simbolici. In quest’ottica, si parla di mobilità come capitale simbolico e sociale: viaggiare, soprattutto verso mete “esotiche” o culturalmente riconosciute, accresce il prestigio personale. Tuttavia, non tutti i viaggi hanno lo stesso peso sociale: il valore simbolico dipende da dove si va, come si viaggia e cosa si racconta dell’esperienza; il viaggio diventa così un mezzo per esprimere la propria identità, differenziarsi dagli altri e comunicare uno specifico “stile”, in linea con quanto affermava Bourdieu (1984).
In questo contesto, la notriphobia può essere letta come una dissonanza tra aspettative culturali e possibilità materiali, vissuta con frustrazione da chi si percepisce escluso da un’idea di vita desiderabile.

Capitalismo esperienziale e prestazione identitaria
Soprattutto fino alla metà del ‘900, viaggiare era un’esperienza limitata a pochi: era legato a esigenze lavorative, percorsi migratori o turismo d’élite. Non esisteva una narrazione collettiva del viaggio come realizzazione personale. Con la trasformazione della società dei consumi in capitalismo esperienziale (Pine & Gilmore, 1999), e in seguito in capitalismo affettivo (Illouz, 2007), il viaggio ha cambiato significato. Non viaggiamo più per “possedere luoghi”, ma per sentirci trasformati, rigenerati, resi migliori. In questa prospettiva, il viaggio si trasforma in un vero e proprio prodotto emozionale: deve suscitare sensazioni autentiche, profonde, memorabili. Allo stesso tempo diventa una forma di investimento identitario (si parte “per ritrovare sé stessi”, “per riconnettersi con la natura”) e un contenuto narrabile, da fotografare, condividere e consumare socialmente. Chi non viaggia, o non può farlo, rischia di sentirsi escluso da questa costruzione di senso e valore. La notriphobia nasce proprio qui: quando si interiorizza l’idea che solo chi si muove possieda un’identità interessante e riconosciuta, mentre chi resta fermo finisce per apparire fuori tempo, irrilevante, invisibile.

Viaggiare per essere visti: Instagram come dispositivo di distinzione
I social media con la loro cultura visuale, sono un punto privilegiato di osservazione (e di riproduzione di questo meccanismo). Su piattaforme come Instagram, il viaggio è curato, estetizzato, montato in forma narrativa, trasformandosi in una vetrina del sé.
In questo senso, il viaggio non è più solo un’esperienza da vivere, ma diventa una performance pubblica: “vedo, quindi esisto”. Chi non parte non solo si priva di esperienze, ma rischia di sparire socialmente: non entra nei racconti, non compare nei feed, non partecipa alla conversazione culturale. Quando si dice che “la mobilità è stata moralizzata”, si intende proprio questo: viaggiare è diventato un metro per misurare il valore umano e sociale. Non è più una semplice libertà di scelta, ma un dovere implicito, un imperativo. L’immobilità, al contrario, è percepita come fallimento, apatia, marginalità.
Il sé come performance: soggettività e pressione alla visibilità
La notriphobia si inserisce in un paradigma più ampio: quello della soggettività performativa e visibile. Come spiegava Erving Goffman (1959), nella vita quotidiana tutti recitiamo ruoli sociali, proprio come attori su un palcoscenico; ma se un tempo esistevano momenti di pausa dalla scena, oggi la performance è continua, pubblica, incessante. In questo scenario, il viaggio diventa uno dei palchi principali su cui mettere in scena la propria esistenza. Nasce così un paradosso identitario: ci viene chiesto di essere unici, originali, di distinguerci, ma allo stesso tempo cerchiamo legittimazione e appartenenza, imitandoci a vicenda, condividendo gli stessi luoghi, gli stessi racconti, le stesse foto. Byung-Chul Han (2012) ha definito tutto questo come la società della trasparenza: un mondo in cui mostrarsi è obbligatorio e in cui l’opacità, il silenzio, l’assenza diventano sospette, quasi colpevoli.
In quest’ottica, la notriphobia non è una paura immotivata, ma il sintomo coerente di un sistema che premia la visibilità e penalizza l’invisibilità. Non partire, oggi, equivale a non esistere nel racconto collettivo della realizzazione personale.