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Gli emoji (i simboli pittografici digitali che popolano le nostre chat) sono divenute popolari in Giappone alla fine degli anni '90 o oggi sono parte integrante del nostro “linguaggio digitale”, tant'è che nel 2015 l'Oxford Dictionaries ha nominato parola dell'anno l'emoji del volto che ride con lacrime di gioia. Si tratta di un'evoluzione grafica delle emoticon, le “faccine” ideate dall'informatico statunitense Scott Fahlman nel 1982. Poco più di un decennio più tardi gli emoji disegnati da Shigetaka Kurita per NTT Docomo nel 1999 iniziarono a prendere piede in Giappone e qualche tempo dopo arrivò la standardizzazione globale grazie all’Unicode Consortium. Dal momento che sono nati nel “Paese del Sol Levante”, la parola emoji è derivata dal termine giapponese e (絵, che sta per “immagine”) e moji (文字, che significa “carattere”).
Come sono nati gli emoji
L’uso di simboli per comunicare emozioni ha radici ben anteriori agli emoji che conosciamo oggi. Negli anni ‘80, l’informatico americano Scott Fahlman propose le prime emoticon: combinazioni di caratteri come :-)
per indicare una battuta umoristica e :-(
per segnalarne la serietà. Questi segni, pur rudimentali, rappresentarono una svolta nell’espressione di emozioni nei contesti digitali e furono ampiamente usati fino agli anni ’90. Le emoticon, sebbene creative, avevano però dei limiti, in quanto non erano facili da interpretare, specialmente agli utenti meno avvezzi nell'uso di Internet.
La svolta arrivò nel 1999 in Giappone, quando il grafico Shigetaka Kurita creò il primo set di emoji: 176 disegni a 12×12 pixel per la piattaforma i-mode di NTT Docomo. Questi simboli, ispirati alla cultura visiva giapponese, spaziavano da cuori e volti sorridenti a icone meteorologiche, passando per simboli astratti. Il loro successo spinse altre aziende a sviluppare set simili, ma la vera globalizzazione degli emoji avvenne grazie all’intervento di Google ed Apple, che nel 2010 ottennero la loro standardizzazione da parte dell’Unicode Consortium. Questo consorzio, responsabile della codifica di caratteri utilizzati nei sistemi operativi di tutto il mondo, ha garantito che gli emoji potessero essere visualizzati correttamente su ogni dispositivo.
Da allora, gli emoji sono diventati più inclusivi e sofisticati. Dal 2015, grazie a pressioni sociali, l’Unicode Consortium ha introdotto tonalità di pelle diverse, rappresentazioni di genere e opzioni per persone con disabilità. Inoltre, sono stati sviluppati emoji personalizzabili come gli Animoji di Apple, che consentono agli utenti di creare avatar che riflettono le proprie caratteristiche fisiche e, tramite la funzione Genmoji, di realizzare emoji personalizzati con l'ausilio dell'intelligenza artificiale.
Emoji: Paese che vai, interpretazione che trovi
Nonostante il loro successo, gli emoji non rappresentano realmente un linguaggio universale. Keith Broni, primo traduttore di emoji al mondo, sottolinea che il loro significato varia enormemente tra culture e definisce gli emoji come «uno strumento linguistico che viene utilizzato per integrare il nostro linguaggio».
Basti pensare, ad esempio, all'emoji del pollice in su: è un segno di approvazione in Occidente, ma può risultare offensivo in Medio Oriente. L’emoji dell’angelo, usato per indicare innocenza in molte culture, in Cina può rappresentare la morte. Simili discrepanze si riscontrano anche nell’uso dell’emoji delle mani giunte, che in Occidente evoca preghiera o gratitudine, ma in Giappone è spesso interpretato come un semplice “per favore” o “grazie”.
Gli emoji non solo riflettono differenze culturali, ma influenzano anche il modo in cui comunichiamo. In un’epoca in cui i messaggi scritti sono brevi e spesso privi di contesto, gli emoji aiutano a trasmettere emozioni e toni, compensando le limitazioni della parola scritta. Tuttavia, il loro uso può anche portare a fraintendimenti. In Israele, un giudice ha considerato una serie di emoji celebrativi come un impegno implicito in una trattativa, dimostrando come questi simboli possano assumere un significato vincolante in contesti legali (perlomeno in certe legislature). “penna”