Succede a tutti, talvolta, il fenomeno dell'incantamento, o mind-wandering: è quando il pensiero parte per la tangente soprattutto quando ci stiamo annoiando, o ci aspetta un lavoro da fare senza la voglia necessaria per svolgerlo, e allora indugiamo ancora qualche minuto fino a finire catatonici fissando un punto nel muro non ben definito, mentre la mente va con il pilota automatico senza una precisa direzione e senza un controllo consapevole, spesso allontanandosi dai compiti contingenti. Ciò che succede è che inneschiamo nel nostro cervello un network di default che innesca un vagabondaggio della mente nel passato e nel futuro. Questa pratica è utile ed efficace nel breve periodo, ma se si protrae troppo a lungo e diventa invasiva può costituire un problema per chi la vive.
Cosa succede al cervello quando ci si incanta e quali sono le cause
Ad attivarsi con intensità durante i minuti di mind-wandering (così viene chiamato in inglese l’incantamento) è la rete di default (Default Mode Network), composta di fasci neuronali collegati tra di loro che si attivano durante stati di riposo mentale, in assenza di una focalizzazione su un compito specifico. Le principali regioni cerebrali attraverso le quali questa rete passa sono la corteccia prefrontale mediale, la corteccia cingolata posteriore e le regioni temporo-parietali mediali e laterali.
Da studi di risonanza magnetica funzionale emerge che questo network porta la nostra mente a proiettare il Sé all’interno di scenari passati e futuri. Il principale scopo evolutivo di questa attivazione inconscia sembrerebbe quella di prepararci ad eventuali scenari futuri sulla base delle esperienze passate, un po’ come succede per i sogni.
Non è inusuale, infatti, trovare soluzioni a problemi o superare ostacoli nel lavoro o nella vita quotidiana dopo un processo di mind-wandering, proprio perché questa proiezione del Sé in differenti scenari è libera da una formulazione formale dei problemi, e vaga sciolta tra differenti possibilità di problem-solving rispetto a quelle più rigide (ma anche genericamente più ottimizzate e lineari) che perseguiamo quando siamo concentrati su specifici problemi.
Quando lo sguardo perso diventa problematico
Possiamo rimanere incantati sia in modo conscio che in modo inconscio, ma anche quest’ultima modalità trova il suo innesco da comportamenti che possiamo rilevare con relativa facilità. Succede spesso di finire nel vortice del “vagabondaggio mentale” quando ci stiamo annoiando, o quando la percezione della fatica rispetto a un compito da svolgere è anticipata rispetto al compito stesso.
È ciò che comunemente chiamiamo “procrastinazione”. Un modo, questo, per sedare lo stress sul breve termine, derivante dalla previsione sullo sforzo da compiere, evitando la relativa ansia e pressione. Attenzione però, questa strategia efficace sul breve termine può finire per diventare invasiva e debilitante: staccare dallo stress procrastinando un compito significa molto spesso rimandare quel compito, e aggiungervi un carico di ulteriore pesantezza data dal continuo rimandare, che fa apparire quello specifico compito ancor più gravoso, e magari anche più urgente e stressante, quando a quel compito è associata una data di scadenza da non superare.
“Una mente che vaga è una mente infelice”, così Killingsworth e Gilbert titolano il loro articolo del 2010 apparso su Science nel quale indagano la correlazione tra infelicità e l’incapacità di stare mentalmente nel momento presente.