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17 Gennaio 2025
19:00

Squid Game potrebbe essere ispirato a una storia vera: il campo di concentramento in Corea del Sud

La popolare serie TV “Squid Game” potrebbe essere ispirata a una tragica storia vera: quella della Brothers Home di Busa, divenuta simbolo di abusi e violazioni dei diritti umani. Tra il 1975 e il 1987, circa 40.000 persone tra cui bambini, disabili e oppositori politici, furono sfruttati e torturati per arricchire il direttore Park In-geun.

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Squid Game potrebbe essere ispirato a una storia vera: il campo di concentramento in Corea del Sud
Brothers Home Squid Game

La Brothers Home (o Brothers Welfare Center) a Busan in Corea del Sud è tristemente nota per essere stata teatro di gravi abusi e violazioni dei diritti umani tra il 1975 e il 1987. Secondo alcuni le vicende sarebbero state fonte di ispirazione per la popolare serie TV Squid Game trasmessa su Netflix, anche se il creatore della serie Hwang Dong-hyuk non ha dato conferma. Nata come orfanotrofio nel 1960 e poi riconvertita a centro assistenziale nel 1975, la struttura mirava, almeno formalmente, a rieducare senzatetto e vagabondi per reintegrarli in società. Tuttavia, la realtà era ben diversa: su 40.000 persone imprigionate in questo vero e proprio campo di concentramento, meno del 10% erano effettivamente senzatetto. Molte vittime erano disabili, venditori ambulanti, prostitute o persino bambini rapiti, detenuti per gonfiare il numero di reclusi e ottenere maggiori sovvenzioni statali, che arricchirono il direttore Park In-geun. Ma per fare chiarezza, dobbiamo partire dal 1975.

Le case assistenziali

Nel 1975 il presidente e dittatore della Corea del Sud Park Chung Hee mise in piedi un sistema di 36 case assistenziali sparse su tutto il territorio. Sulla carta, il progetto avrebbe dovuto accogliere tutti gli “indesiderati”: in questa categoria rientravano principalmente vagabondi e senzatetto che, dopo essere stati rieducati e dopo avergli insegnato un mestiere, sarebbero stati riammessi in società.

Questa voglia di “ripulire” il Paese diventò ancora più grande in prossimità delle Olimpiadi di Seul del 1988, visto che si passò da 8600 reclusi nel 1981 a 16 mila reclusi nel 1986. Certo, si tratta di una pratica discutibile, ma non è questo il punto su cui mi vorrei soffermare. Tra tutti i centri, infatti, c’e n’è uno che è tristemente passato alla cronaca per le pratiche disumane svolte al suo interno: la Brothers Home di Busan.

La nascita della Brothers Home

Nata come orfanotrofio nel 1960, questa struttura nel 1975 venne riconvertita a centro assistenziale, il più grande di tutta la rete. Alla sua guida c’era Park In-geun, un ex-militare e assistente sociale, che avrebbe dovuto gestire il centro in maniera ligia, rieducando effettivamente tutti coloro che entravano… ma come avrete capito le cose andarono in modo ben diverso. Considerate che durante tutta la sua vita operativa la Brothers Home ospitò qualcosa come 40 mila persone, con picchi di 4000 persone contemporaneamente – nonostante la capienza massima fosse di 500.

La motivazione dietro a tutto ciò? Semplice: il centro riceveva importanti sovvenzioni dallo Stato – sovvenzioni che finivano per la maggior parte nelle tasche del suo direttore – e che erano proporzionali al numero di persone detenute. Quindi più detenuti = più soldi. Si stima che il direttore nel tempo mise da parte grazie a questo vero e proprio campo di concentramento un patrimonio equivalente a più di 90 milioni di euro attuali.

Questo ci permette di spiegare anche un altro aspetto, cioè che di fatto meno del 10% delle persone imprigionate fosse effettivamente senzatetto: la maggior parte erano avversari politici e persone facili da rapire, come bambini che aspettavano l’autobus, disabili, venditori ambulanti e prostitute.

Ma il peggio non è nemmeno questo. Vi dico solo che a posteriori questa struttura venne soprannominata “l’Auschwitz coreana”.

La vita all'interno dell'Auschwitz coreana

La prima cosa da sapere è che il direttore per risparmiare sui costi decise di non assumere personale competente per gestire la struttura ma promosse a guardie alcuni tra i prigionieri più violenti presenti nel centro. Questi detenuti privilegiati si organizzarono in squadroni, ricreando un’organizzazione a stampo para-militare. La repressione, è facile immaginarlo, era all’ordine del giorno: la gente spesso protestava perché era stata intrappolata senza avere colpa, e tutto veniva gestito con bastonate, punizioni corporali e abusi. Pensate che addirittura i bambini che venivano rapiti spesso venivano letteralmente venduti all’estero.

Tra l’altro, il direttore della prigione era profondamente cattolico – quasi un estremista si potrebbe dire – e obbligò tutti i prigionieri a imparare versi della bibbia e canti sacri. E chi se li scordava, botte.

Per passare il tempo – e qui ci ricolleghiamo a Squid Game – le guardie facevano fare anche giochi violenti ai detenuti per il semplice gusto di intrattenersi, anche se non ho trovato report approfonditi che raccontassero nel dettaglio di che sfide si trattasse. In più aggiungiamo il fatto che tutti indossavano una tuta blu che, effettivamente, è piuttosto simile a quella presente nella serie tv. Quindi questa potrebbe essere una chiara fonte d’ispirazione per la serie, anche se di fatto il regista non ha mai esplicitamente detto di aver preso questa storia come riferimento.

Tra l’altro, piccola parentesi: su Instagram e TikTok stanno circolando ovunque queste immagini. Ecco, queste non sono foto della Brothers Home – anche perché è stata demolita ormai trent’anni fa –  e sono semplici immagini fatte con l’intelligenza artificiale.

A tutto questo, che già è incredibilmente grave, si aggiunge lo sfruttamento per i lavori forzati, come lavoro nei campi, lavori edili e produzione di scarpe e borselli. Inutile dire che la quasi totalità del guadagno ovviamente non andava né allo stato né ai prigionieri, ma nelle casse del direttore Park In-geun. Ad oggi sono state confermate 657 vittime, ma si teme che questo numero, in realtà, sia molto più alto.

La fine della Brothers Home

Cose di questo tipo erano difficili da tenere nascoste e i parenti delle persone rinchiuse – quelle poche che capirono dove erano stati rinchiusi i propri cari, per lo meno – iniziarono ad alzare la propria voce, fino a portare all’arresto di Park In-geun nel 1987 per appropriazione indebita e confinamento illegale. Volete sapere la cosa assurda? Essendo immanicato con le alte cariche dello stato, fu condannato solamente a due anni e mezzo di carcere per aver sottratto milioni di dollari di sussidi governativi ma – incredibilmente – non fu mai chiamato a rispondere delle violazioni dei diritti umani.

La gente, ora libera, iniziò a protestare e a denunciare l’accaduto, ma le autorità di ogni livello gli intimarono di tacere – era una verità troppo scomoda e imbarazzante per il governo. Pensate che la verità iniziò ad emergere solo nel 2012, grazie alle proteste di un sopravvissuto che colpirono un professore universitario che, a sua volta, studiò a fondo la vicenda, facendo emergere il marcio e facendo muovere lo stato per compensare le vittime e le loro famiglie.

A oggi, questa resta una delle pagine più nere della storia sudcoreana.

Sono un geologo appassionato di scrittura e, in particolare, mi piace raccontare il funzionamento delle cose e tutte quelle storie assurde (ma vere) che accadono nel mondo ogni giorno. Credo che uno degli elementi chiave per creare un buon contenuto sia mescolare scienza e cultura “pop”: proprio per questo motivo amo guardare film, andare ai concerti e collezionare dischi in vinile.
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