
Mappare il cervello di un serial killer, si può… o almeno è quello che stanno provando a fare alcuni neurocriminologi. Ogni assassino seriale presenta caratteristiche molto differenti l’uno dall’altro: numero di vittime, movente, modalità di esecuzione del crimine. Evidenze scientifiche hanno però trovato tratti comuni che coinvolgono fattori psicologici, neurobiologici e perfino genetici. Traumi infantili, riduzione di materia grigia, alterazione di uno specifico gene (5-HT1B), attivazione spropositata di alcuni neurotrasmettitori sembrano essere i principali responsabili di comportamenti violenti, riduzione del senso del rimorso e dell’empatia.
Storia dello studio sui serial killer
Cercare tratti comuni nei serial killer non è un’ambizione totalmente recente. Nel XIX secolo, Cesare Lombroso (1835-1909), medico e antropologo italiano a cui va il merito di aver fondato la cosiddetta antropologia criminale, sviluppò la teoria dell’"uomo delinquente nato", sostenendo che i criminali presentassero dei tratti fisici e anatomici distintivi che li rendevano riconoscibili e che li predisponevano naturalmente alla devianza. Secondo Lombroso, segni come fronte sfuggente, mandibola pronunciata, zigomi larghi, orecchie grandi e asimmetriche, occhi infossati e ravvicinati, naso adunco, bassa statura e altre peculiarità fisiche, erano indizi di una sorta di “atavismo”: un ritorno a stadi primitivi dell’essere umano. In pratica, il criminale era ritenuto un individuo rimasto indietro nell’evoluzione e dunque incline a condotte violente.

Queste idee oggi sono ovviamente superate, non solo perché prive di basi scientifiche, ma anche perché risultano semplificatorie e stigmatizzanti. Tuttavia hanno contribuito a promuovere l’idea che il comportamento criminale potesse essere oggetto di studio scientifico e hanno ispirato ricerche successive sull’origine e la natura del crimine.
A oggi infatti, grazie alle tecniche di neuroimmagine e allo studio di comunanze psicologiche, i neurocriminologi iniziano a fornire le prime risposte su base scientifica riguardanti l’origine del comportamento criminale. Quello che emerge è che dietro un serial killer non c’è mai un solo fattore, ma una combinazione complessa di cause psicologiche, neurobiologiche e perfino genetiche.
Fattori psicologici
Uno dei principali fattori considerati come scatenante la condotta degli assassini seriali è l’aver sofferto un’infanzia particolarmente traumatica. Dati alla mano, oltre il 90% dei serial killer è stato vittima di violenza, esperienze di abbandono o hanno subito abusi sessuali (da sconosciuti o da persone familiari). Vivere in un contesto familiare violento può generare nei bambini un vissuto di costante paura; questo scenario ha come conseguenza psicologica quella di reprimere i sentimenti, anestetizzare le emozioni per difendersi dal dolore e limitare lo sviluppo dell’empatia. In uno studio di 62 serial killer di sesso maschile, si è osservato che il 48% era stato abbandonato dalle figure di riferimento. È stato anche osservato che minori aventi un genitore in carcere e/o ritenuto socialmente pericoloso presentino maggiori livelli di delinquenza e di aggressività.
Esistono inoltre, altri tre fattori collegati all’omicidio seriale: la piromania, la crudeltà verso animali e l’incontinenza urinaria infantile. Più del 60% degli assassini seriali avrebbe sofferto di enuresi notturna durante l’infanzia e quasi tutti avrebbero torturato sadicamente animali. Sono stati condotti studi in cui si sono analizzati 153 soggetti che torturavano animali e li hanno paragonati ad un gruppo di controllo. Chi torturava animali aveva una probabilità cinque volte superiore di commettere atti di violenza come aggressione, stupro o omicidio. Per quanto riguarda la piromania, non esistono dati neuroscientifici specifici; tuttavia, gli studi clinici mostrano che questo disturbo compaia in maggior frequenza in personalità antisociali e psicopatiche e quindi già inclini a comportamenti criminali.

Fattori neurobiologici
Le moderne tecniche di risonanza magnetica hanno mostrato che in molti serial killer esistono alterazioni cerebrali. Una riduzione della materia grigia nella corteccia prefrontale, sembra compromettere il controllo degli impulsi. È come avere un freno inibitorio meno efficace. Uno studio condotto su psicopatici criminali, infatti, osservò una riduzione del 22,3% della materia grigia prefrontale e un’alterazione nel sistema limbico (deputato nella regolazione delle emozioni), a spiegare anche la mancata empatia e il senso di rimorso. La neurobiologia ci rivela anche come siano coinvolte attivazioni maggiori della noradrenalina, implicata nelle condotte aggressive, unitamente all’adrenalina e alla dopamina.
In generale, c’è accordo nell’attribuire anche all’amigdala (che fa parte del sistema limbico) un ruolo chiave nel processamento delle emozioni morali: quando quest’area del cervello funziona in modo alterato, si osserva una riduzione del senso morale, un debole senso di rimorso ed empatia e una minore capacità di distinguere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Questo squilibrio può favorire l’emergere di comportamenti criminali. Per semplificare, è come se questo mix alterato di neurotrasmettitori si traducesse in un controllo degli impulsi inefficace, maggiore facilità ad attivare reazioni di rabbia e aggressività e, infine, piacere e gratificazione nell’atto violento.

Fattori genetici
Da studi molto recenti e ancora in fase di indagine, si ipotizzano possibili predisposizioni genetiche al comportamento del serial killer. Un esempio è l’alterazione del gene 5-HT1B, che regola la serotonina, un neurotrasmettitore fondamentale nel controllo dell’aggressività dell’umore. Mutazioni o varianti di questo gene possono aumentare la vulnerabilità a comportamenti aggressivi, soprattutto se associati a traumi ambientali e disfunzioni cerebrali.
È importante sottolineare che non tutte le persone che hanno vissuto traumi infantili presentano alterazioni cerebrali o possiedono varianti genetiche particolari diventano serial killer. La maggior parte delle persone con queste caratteristiche conduce una vita normale. Tuttavia, la ricerca ha dimostrato che esiste un collegamento statistico: quanti più fattori di rischio si sommano (traumi, vulnerabilità biologiche e contesto sociale sfavorevole), la probabilità che emergano comportamenti criminali aumenta in modo significativo. Chissà se le risonanze magnetiche di Jack lo Squartatore, o di Dahmer o del Mostro di Firenze avrebbero potuto metterci in guardia! Forse la scienza non avrebbe potuto prevedere il corso della loro vita, ma ci ricorda che il male genera catene di conseguenze, e comprenderlo è il primo passo per spezzarle.