

Il conflitto israelo-palestinese nasce da una questione apparentemente semplice: due popoli rivendicano il medesimo territorio. Gli israeliani ritengono di avere il diritto di controllare la Palestina perché è il luogo di nascita del popolo ebraico; i palestinesi sostengono che abitavano il territorio prima degli israeliani e ne sono stati cacciati con la forza. Il conflitto è iniziato nella prima metà del Novecento e si è inasprito dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948. L’unico tentativo serio di raggiungere la pace, avanzato negli anni ’90, è fallito.
- 1Le radici del conflitto israeliano-palestinese
- 2Il sionismo
- 3La Prima guerra mondiale e le responsabilità dell’Occidente
- 4La Shoah, la fondazione di Israele e l’esodo palestinese
- 5Le guerre arabo-israeliane e la rinascita palestinese
- 6Il fallimento del processo di pace
- 7Il ruolo della religione e la dimensione internazionale
Le radici del conflitto israeliano-palestinese
Il conflitto israelo-palestinese ha radici molto antiche. La Palestina è infatti il luogo nel quale nel primo millennio a.C. si formò il popolo ebraico.

Nel I secolo a.C. il territorio palestinese entrò nella sfera di influenza di Roma e nel 70 d.C., in seguito alla repressione di una rivolta, gran parte degli ebrei fu costretta a emigrare verso il Nord Africa e l’Europa. Iniziò così la Diaspora del popolo ebraico. Nel VII secolo d.C. la Palestina fu conquistata dagli arabi, da poco convertitisi all’Islam, e gradualmente la popolazione si arabizzò.
Il sionismo
Gli ebrei che vivevano nella Diaspora subivano pesanti discriminazioni, soprattutto in Europa, e furono vittime anche di stragi ed espulsioni. Alla fine dell’Ottocento un ebreo austriaco, Theodor Herzl, fondò il movimento sionista (così chiamato da Sion, una collina di Gerusalemme), che mirava a costituire uno Stato ebraico in Palestina. C’era però un problema: la Palestina, all’epoca facente parte dell’Impero Ottomano, era già abitata da un altro popolo.
La Prima guerra mondiale e le responsabilità dell’Occidente
Gradualmente il sionismo guadagnò consenso nelle comunità ebraiche europee e gruppi sempre maggiori di ebrei emigrarono in Palestina, stabilendosi in insediamenti e in fattorie collettive.
Lo scenario mediorientale cambiò nel corso della Prima guerra mondiale. Gli inglesi, nemici dell’Impero Ottomano, cercarono l’appoggio sia degli arabi, sia degli ebrei, promettendo a entrambi di sostenere le loro aspirazioni a costituire uno Stato indipendente. Regno Unito e Francia, però, siglarono anche un accordo segreto per spartire tra loro il Medioriente e alla fine della guerra la Palestina divenne un “mandato” britannico, cioè un territorio amministrato dal Regno Unito su mandato della Società delle nazioni (predecessore dell’attuale Onu).

Negli anni del mandato britannico l’emigrazione ebraica si intensificò ed ebbero luogo i primi conflitti armati con gli arabi.
La Shoah, la fondazione di Israele e l’esodo palestinese
Durante la Seconda guerra mondiale, i nazisti e i loro alleati massacrarono sei milioni di ebrei europei. Tra i sopravvissuti il sionismo guadagnò molti consensi, perché si diffuse in misura sempre maggiore la convinzione che l’unico posto dove gli ebrei potevano vivere serenamente era uno Stato ebraico. In Palestina il conflitto divenne più aspro, con continui scontri tra le milizie arabe ed ebraiche, e gli arabi rifiutarono un piano di spartizione del Paese proposto dalla Nazioni Unite. Nel maggio del 1948 il Regno Unito ritirò le sue truppe, non essendo più in grado di controllare il territorio, e il leader della comunità ebraica, David Ben Gurion, proclamò la nascita dello Stato di Israele.

Il conflitto tra le forze israeliane e le milizie arabe si trasformò in una vera e propria guerra, perché i Paesi arabi circostanti (Egitto, Siria, Giordania e Iraq) inviarono dei contingenti militari ad attaccare lo Stato ebraico. Le forze israeliane respinsero l'attacco e conquistarono un ampio territorio, ma non occuparono l’intera città di Gerusalemme, che era particolarmente ambita per il suo valore storico-religioso. La parte orientale della città restò sotto il controllo della Giordania.
Per la popolazione araba, l’esito della guerra fu disastroso: circa 700.000 persone furono costrette a lasciare la loro terra (è discusso se l’espulsione fu un atto deliberato delle forze israeliane o una conseguenza della guerra) e a trasferirsi in campi profughi allestiti nei Paesi vicini, dove tuttora vivono i loro discendenti. L’evento è noto tra i palestinesi come Nakba (catastrofe).

Solo una minoranza di palestinesi, oggi noti come arabo-israeliani, restò in Israele.
Le guerre arabo-israeliane e la rinascita palestinese
Dopo il conflitto del 1948 scoppiarono nuove guerre tra Israele e gli Stati arabi. La più importante, conosciuta come Guerra dei sei giorni, ebbe luogo nel 1967. Israele sconfisse l’Egitto, la Siria e la Giordania, occupando una parte dei loro territori: Gerusalemme Est e la Cisgiordania (cioè il territorio a ovest del fiume Giordano, noto anche come West Bank), appartenenti ala Giordania; la Striscia di Gaza e la Penisola del Sinai, facenti parte dell’Egitto; il Golan, appartenente alla Siria. Pochi anni dopo, nei territori occupati iniziò la costruzione di insediamenti israeliani, che nel corso degli anni sono diventati sempre più numerosi.

Dopo la Guerra dei sei giorni il conflitto israelo-palestinese assunse una nuova forma. La popolazione palestinese perse fiducia negli Stati arabi e si propose di condurre in prima persona la lotta contro gli israeliani, sotto la guida dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e del suo leader Yasser Arafat.
Inoltre, tra la fine degli anni ’70 e gli anni ‘80 cambiò nuovamente lo scenario internazionale. L’Egitto firmò un accordo di pace con Israele, riottenendo il Sinai, e rinunciò definitivamente alla Striscia di Gaza. Nel 1988, il governo giordano rinunciò alla Cisgiordania, auspicando che potesse diventare sede di uno Stato palestinese se Israele si fosse ritirato. Da allora, Cisgiordania e Gaza sono considerati territori palestinesi.
Il fallimento del processo di pace
Grazie a questi cambiamenti, negli anni ’90 iniziò un promettente processo di pace. Nel 1993 Arafat e il premier israeliano Yitzhak Rabin sottoscrissero un accordo con il quale Israele e l’Olp si riconoscevano reciprocamente. Lo Stato ebraico, inoltre, cedette alla sua controparte il controllo di alcuni settori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, con l’obiettivo di giungere alla creazione di uno Stato palestinese.

L’accordo, però, non affrontava le questioni più spinose, tra le quali lo status di Gerusalemme, che entrambi rivendicano come capitale; gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dei quali i palestinesi chiedono la rimozione; il ritorno in Israele dei profughi palestinesi espulsi nel 1948. Non a caso, il processo di pace è fallito e lo Stato palestinese non è stato costituito, sebbene sia stata fondata un’Autorità nazionale palestinese per amministrare i territori ceduti da Israele. Il conflitto ha assunto la forma di una guerra asimmetrica, combattuta tra un esercito regolare da una parte e milizie armate dall’altra. La pace appare quanto mai lontana.
Il ruolo della religione e la dimensione internazionale
Il conflitto israelo-palestinese non è una guerra di religione, ma uno scontro tra due popoli per il possesso della stessa terra. L’appartenenza a due fedi diverse, ebraica e islamica, inasprisce il confronto, ma non ne è la causa.
Il conflitto, inoltre, non si combatte solo in Israele e nei Territori palestinesi, ma anche nelle principali capitali del mondo, perché per entrambe le parti in lotta guadagnare sostegno internazionale è una necessità imprescindibile.