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In inglese, “to feel blue” è un modo comune per dire che ci si sente tristi o malinconici. Non a caso quello che viene spacciato per il presunto “giorno più triste dell'anno”, a gennaio, viene chiamato “Blue Monday”. Ma cosa c'entra il colore blu con la tristezza o la malinconia? L’associazione nasce nell’antica Grecia, con la teoria degli umori e la bile nera, poi si colora di toni cupi nel Medioevo e diventa linguaggio comune in inglese con i “blue devils”. Tra musica, arte e psicologia, il blu ha continuato a evocare solitudine, introspezione e struggimento, trasformandosi in simbolo universale di malinconia.
Come mai il colore della tristezza è il blu
Per comprendere davvero perché in inglese il colore blu esprima malinconia, bisogna tornare indietro di oltre 2000 anni, nella medicina dell’antica Grecia di Ippocrate. Lì nasce la teoria dei quattro umori, un sistema medico-filosofico secondo cui il corpo umano era regolato da quattro fluidi: sangue, flemma, bile gialla e bile nera. Ognuno di questi era associato a un elemento naturale (aria, acqua, fuoco, terra) e a determinate caratteristiche fisiche ed emotive, pertanto lo squilibrio di questi umori comportava il malessere del paziente. L’eccesso di bile nera dava origine al temperamento malinconico: un individuo pensieroso, introverso, incline alla tristezza e alla contemplazione.
Nel pensiero medievale e rinascimentale, le qualità fredde e secche della bile nera venivano spesso rappresentate visivamente con colori scuri, profondi, tra cui il blu scuro. E dunque, con il tempo, questo colore viene sempre più associato a stati interiori malinconici, passivi, meditativi.
“Blue devils” e il Blues
Uno dei primi segnali dell’associazione tra il blu e la tristezza nella lingua inglese compare nel XVII secolo, con l’espressione idiomatica “to have the blue devils”, che indicava uno stato di angoscia profonda, spesso accompagnato da allucinazioni e deliri visivi, che potevano colpire chi attraversava crisi di astinenza da alcool. I "diavoli blu”, erano quindi una metafora del disagio, delle ombre interiori, dei fantasmi della mente. All’epoca l’aggettivo “blue” era anche uno slang per “ubriaco”, e le leggi che vietavano il consumo di alcolici di domenica vennero denominate “blue laws”.
Sul finire del 1700, nelle taverne americane, si affermò un tipo di ballo lento chiamato proprio “Blues”, in cui il passo e la musica riflettevano uno stato d’animo malinconico, carico di emozioni trattenute e intime.
Dopo la Guerra di secessione americana (1861–1865), le espressioni “to be blue” o “to have the blues” si diffusero ulteriormente per descrivere uno stato d’animo malinconico o triste, ormai distaccato dal riferimento all’alcol. È in questo contesto che il termine cominciò a circolare all’interno delle comunità afroamericane del Sud degli Stati Uniti, dove diventò sinonimo di una particolare sensibilità emotiva e di una risposta individuale e collettiva al dolore. Fu solo all’inizio del XX secolo, tuttavia, che il significato astratto di “blues” si fuse in modo definitivo con quello musicale. Non era raro sentire dire che un musicista “cantava i blues” per liberarsi dei propri demoni interiori. Il blues feeling — l’emozione— venne considerato più importante della tecnica stessa. In questo senso, il blues diventò una vera e propria forma di terapia emotiva, un modo per esorcizzare i propri “devils” attraverso il canto e il suono.
Il blu nell’arte e nella cultura visiva
Anche nell’arte visiva, il blu ha spesso espresso malinconia e introspezione. Fra i numerosi esempi, basti pensare al “Periodo Blu” di Pablo Picasso (1901–1904), durante il quale l’artista dipinse quasi esclusivamente in toni di blu e grigio, spesso rappresentando soggetti poveri, emarginati, sofferenti.

Questo colore è stato usato nella storia dell’arte per evocare distacco, sacralità, mistero, ma anche solitudine e riflessione. Oggi la psicologia del colore ci dice che il blu è percepito come calmante, affidabile, freddo, ma anche distaccato e malinconico. In ambienti terapeutici viene usato per rasserenare, ma la sua componente “emozionale fredda” è spesso evocata in pubblicità, arte e narrativa per rappresentare introspezione, isolamento, meditazione.