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21 Aprile 2023
16:30

Scoperto un pesce che vive negli abissi a oltre 8.300 metri di profondità, come fa a sopravvivere?

Nelle fosse di Izu-Ogasawara e Ryukyu al largo del Giappone, è stato rinvenuto un esemplare di pesce osseo del genere Pseudoliparis a 8.336 metri di profondità. Si tratta di un vero e proprio record perchè, ad oggi, è la massima profondità alla quale è stato finora possibile osservarne uno.

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Scoperto un pesce che vive negli abissi a oltre 8.300 metri di profondità, come fa a sopravvivere?
pesci abissi
Credit: The University of Western Australia/Caladan Oceanic

In Giappone, nelle fosse di Izu-Ogasawara e Ryukyu, vive un pesce capace di sopravvivere a 8336 metri di profondità.
Nell’agosto 2022 un gruppo di ricerca guidato da Alan Jamieson, della University of West Australia, ha immortalato in un breve filmato un giovane individuo del genere Pseudoliparis, un gruppo di pesci ossei marini che vivono nei fondali dell’Oceano Pacifico occidentale. La particolarità di questa osservazione non è tanto nel genere di appartenenza del pesce, già noto ai biologi marini, ma nel luogo in cui è stata fatta: si tratta infatti del punto più profondo nel quale un pesce sia mai stato rinvenuto.

I fondali della zona nord-occidentale dell’Oceano Pacifico costituiscono il complesso di depressioni oceaniche più profondo del nostro pianeta. È qui, ad esempio, che si trova la fossa delle Marianne, tra Giappone, Filippine e Nuova Guinea, dove nel maggio del 2017 venne rinvenuto un esemplare di Pseudoliparis swirei a 8.178 metri di profondità. Un record da Guinness dei primati, almeno fino all’estate scorsa. Ma come fanno questi pesci a sopravvivere a profondità così spinte? E come è stato possibile osservarli?

Come fa a esserci vita a profondità così elevate?

Quelle presenti a 8.000 metri di profondità sono, infatti, condizioni estreme: si calcola che la pressione dell'acqua sia 800 volte quella della superficie; in un ambiente del genere gli scambi di gas per la respirazione e qualsiasi altra funzione fisiologica sarebbero impensabili per molte specie viventi. Inoltre, dobbiamo ricordarci che l’acqua di mari e oceani è molto più concentrata in sali rispetto alle cellule degli organismi che vi abitano che, senza un meccanismo regolatore dell’osmosi, perderebbero tutti i liquidi collassando.

Quindi la fisiologia cellulare di questi pesci permette loro di resistere alle alte pressioni tipiche delle profondità estreme, grazie alla presenza di composti chiamati osmoliti. Queste molecole sono implicate nell’osmosi, ovvero nel movimento dell’acqua da una soluzione meno concentrata a una più concentrata attraverso una membrana semipermeabile, regolandola ed evitando che le cellule del pesce collassino.

Le aree più profonde di queste depressioni oceaniche presentano una temperatura leggermente superiore rispetto a quelle circostanti che permettono agli osmoliti di espletare la loro funzione e alle specie ittiche osservate di sopravvivere. Queste molecole, infatti, sono meno efficaci alle basse temperature ma nei punti dove sono stati osservati i nostri Pseudoliparis si registrano 1,7 gradi Celsius. La differenza con le zone adiacenti è di poche frazioni di grado centigrado, impercettibili per noi esseri umani ma determinanti per la sopravvivenza di questi animali marini.

Con quali mezzi si è potuto esplorare tanto in profondità?

I ricercatori hanno usato un lander che trasportava esche a base di pesce per attirare i crostacei che, a loro volta, avrebbero attratto i Pseudolipari. Il lander usato al momento del ritrovamento ha fotografato un individuo giovane appartenente a questo genere di pesci ossei ma il team di ricerca non è ancora riuscito a identificarne la specie.

L'importanza della scoperta

Quello che sappiamo ad oggi è che si contano oltre 400 specie di questi pesci distribuiti lungo profondità molto variabili. Ogni fossa, o depressione oceanica, ha la sua specie di Pseudoliparis, evolutasi per far fronte alle condizioni specifiche di quella singola e limitata zona di fondale. Secondo Alan Jamieson è improbabile che le specie si muovano verso altre zone o nuotino a profondità diverse perché per farlo dovrebbero “decomprimersi”. Ci sono stati nel tempo diversi cambiamenti nella fisiologia di queste specie che le hanno portate a occupare nicchie ben specifiche in virtù della loro capacità di adattamento, delle condizioni e delle risorse disponibili.

Un aspetto fondamentale di osservazioni come quella effettuata dal team di ricerca di Jamieson non è tanto quello di spingersi sempre più in profondità nei fondali oceanici, quanto nel trovarvi forme di vita nuove e sconosciute fino a quel momento.

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