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25 Ottobre 2024
7:00

Da dove viene l’espressione radical chic? Le origini e il significato dispregiativo

"Radical chic", coniato dal giornalista e scrittore statunitense Tom Wolfe nel 1970, critica l’ostentazione di idee radicali da parte delle élite benestanti. L’espressione evidenzia l’incoerenza tra ideali rivoluzionari (o più genericamente di sinistra) e privilegi di classe e ricchezza.

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Da dove viene l’espressione radical chic? Le origini e il significato dispregiativo
origine e significato espressione radical chic

L'espressione "radical chic" fu coniata nel 1970 dallo scrittore e giornalista statunitense Tom Wolfe e viene utilizzata spesso in senso dispregiativo. Il termine critica la presunta incoerenza di coloro che, pur dichiarandosi politicamente di sinistra, vivono con uno stile di vita che contraddice l'immaginario tradizionale della militanza radicale, caratterizzato da ideali egualitari e semplicità.

Il significato dell’espressione "radical chic"

Il termine "radical chic" è formato da due parole: "radical", che in inglese significa "radicale" e si riferisce all'attivismo politico o alle idee progressiste, e "chic", termine francese che significa "raffinato" o "elegante". La combinazione di queste parole suggerisce, in modo critico, l’ostentazione di idee politiche radicali da parte di persone che adottano uno stile di vita benestante e privilegiato. Secondo la definizione di Treccani, l'espressione si riferisce a chi, per moda o convenienza, abbraccia idee anticonformistiche e politiche radicali, mentre l’Oxford Dictionary lo definisce come la tendenza di ostentare visioni politiche radicali e di sinistra come un modo di essere alla moda.

L’origine dell’espressione: Tom Wolfe e la festa a Park Avenue

L'espressione "radical chic" ha origine da un articolo pubblicato da Tom Wolfe l'8 giugno del 1970 su New York Magazine. Wolfe racconta una festa organizzata dal famoso compositore e direttore d'orchestra Leonard Bernstein e sua moglie Felicia Montealegre nel loro lussuoso appartamento a Park Avenue, Manhattan. La serata, apparentemente elegante e mondana, aveva come scopo la raccolta di fondi in favore del Black Panther Party, un'organizzazione politica afroamericana nata per opporsi alle discriminazioni razziali subite dalla comunità nera e con un’impronta marxista-leninista e anticapitalista.

Wolfe, imbucatosi alla festa, descrive un ambiente in cui l'élite culturale e intellettuale della borghesia americana si incontrava per sostenere una causa apparentemente radicale, ma in un contesto decisamente distante dalle lotte della strada. A questo party partecipavano personaggi di spicco della scena culturale, e il contrasto tra il loro status privilegiato e la causa rivoluzionaria dei Black Panthers non passò inosservato a Wolfe. I camerieri bianchi servivano tartine al Roquefort per evitare di offendere gli ospiti afroamericani, sottolineando l’ironia e l’ipocrisia del tentativo di apparire solidali con le lotte sociali pur restando profondamente ancorati ai propri privilegi.

La critica di Tom Wolfe

Nell’articolo, Wolfe conia il termine "radical chic" per descrivere la moda di sostenere idee politiche di sinistra da parte delle classi più benestanti senza realmente essere coinvolti nei rischi o nelle difficoltà della politica radicale. La festa dei Bernstein, per Wolfe, rappresentava un "cortocircuito" tra due mondi opposti: da una parte la borghesia progressista, che non correva alcun rischio e dall'altra le lotte politiche vere, condotte da gruppi come le Pantere Nere, che invece mettevano in gioco la propria vita e il proprio futuro. Secondo Wolfe, il radical chic era una sorta di matrimonio pubblico ridicolo tra la buona coscienza progressista e la politica di strada, dove i ricchi potevano sentirsi moralmente superiori senza dover rinunciare ai loro privilegi.

La diffusione e l’uso in Italia 

L’espressione fece il suo ingresso anche in Italia grazie a Indro Montanelli. Il 21 marzo del 1972, il giornalista utilizzò il termine in un articolo del Corriere della Sera intitolato “Lettera a Camilla”. L'articolo era rivolto alla giornalista italiana Camilla Cederna, che si era occupata del caso dell'anarchico Giuseppe Pinelli, morto in circostanze misteriose durante un interrogatorio. In quell'occasione, Montanelli criticò una parte dell’intellighenzia italiana, che, secondo lui, sosteneva cause radicali per convenienza o per apparire anticonformista, in perfetta linea con il concetto espresso da Wolfe: sostenere ideali rivoluzionari senza rinunciare ai propri privilegi, sottolineando le contraddizioni di un certo tipo di progressismo superficiale.

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