Con il termine fast fashion si intende a una pratica piuttosto diffusa nel mondo dell'abbigliamento che consiste nel produrre continuamente collezioni di capi a basso costo e di scarsa qualità. Negli ultimi anni, la comparsa di grandi catene economiche e orientate a un pubblico più giovane ha portato a un'accelerazione nella produzione e nel numero di collezioni disponibili, seguendo trend virali quasi in tempo reale. Anche senza considerare gli aspetti sociali di questa pratica (sfruttamento, lavoro minorile e così via), il fast fashion ha però un grande impatto ambientale: a parte l'inquinamento legato a un elevato tasso di produzione di capi, a pesare sono anche i lunghi spostamenti della merce tra i continenti e persino lo smaltimento dei capi usati o invenduti.
L'inquinamento e lo sfruttamento lavorativo
L'Asia è sicuramente il continente di origine del fast fashion: è nelle fabbriche di paesi come il Bangladesh o in Cina che nascono la maggior parte dei capi. In Bangladesh la situazione ambientale è particolarmente critica: la fragile economia del paese è legata fortemente alla produzione di filati o capi completi, ma si tratta soprattutto di vestiario economico e a base di fibre sintetiche come il poliestere.
Stiamo parlando degli sweatshop, fabbriche al confine con la legalità che spesso impiegano anche bambini delle classi sociali più povere. In queste aziende, le sostanze chimiche spesso irritanti e altamente inquinanti sono usate senza alcuna protezione da parte dei lavoratori, per poi essere riversate in canali e fiumi senza alcun trattamento.
Oltre ai detergenti e alle sostanze coloranti usate nella produzione dei tessuti, a preoccupare sono anche gli PFAS (sostanze perfluoro-alchiliche): usati per impermeabilizzare o rendere resistenti alle macchie i tessuti, questi composti non sono ancora normati dalle autorità bangladesi.
Lo stato di degrado delle sconfinate pianure alluvionali del Gange e degli altri fiumi nazionali porta inesorabilmente al declino delle specie acquatiche e a problemi di salute milioni di cittadini, che dipendono da quelle acque per l'agricoltura o per la propria sopravvivenza.
In Cina, dove l'industria è sicuramente progredita e le autorità attuano un maggior controllo sull'ambiente, le maggiori criticità possono invece derivare dai prodotti utilizzati nel confezionamento che possono essere rilasciati dai capi indossati: di recente, una rivista tedesca ha analizzato vestiario acquistato tramite Shein individuando sostante nocive e pesantemente regolate in Europa, dai metalli pesanti agli ftalati.
I cimiteri del fast fashion: le discariche abusive in Africa e Sud America
I disastri ambientali derivati da questo mercato non si fermano alla fonte. Le merci viaggiano per migliaia di km prima di raggiungere i mercati occidentali, che si tratti di stock venduti da grandi magazzini o acquisti online.
I viaggi dei vestiti non terminano però nei nostri armadi: per via della scarsa qualità dei capi, oltre che per la natura transitoria delle mode e delle "collezioni flash" di catene come Zara o Boohoo, la vita utile dei capi tende ad essere molto breve, portando ad una maggior produzione di rifiuti.
A questi si aggiungono capi invenduti e smaltiti dalle grandi catene, per cui la sovraproduzione può talvolta toccare il 40%, o raccolti da organizzazioni di beneficienza; l'insieme finisce per essere rivenduto a mercati secondari in "in blocco". Tra questi, il più grande mercato africano è sicuramente quello di Kantamanto ad Accra, in Ghana.
I capi che vengono scambiati in questo mercato sono chiamati obroni wawu, "vestiti degli uomini bianchi morti": è impensabile per i locali, infatti, che ci si liberi così facilmente di vestiti in buone condizioni per una semplice questione di gusti o voglia di novità.
Purtroppo, una percentuale sempre maggiore di capi inviati ha difetti o danni che li rendono invendibili: questi ultimi vengono quindi gettati nelle discariche intorno alla città, il più delle volte non regolari, dove ciclicamente vengono appiccati incendi.
Simili maxi-discariche si sono ormai diffuse anche in sud America, a partire dalla ormai famosa discarica del deserto di Atacama, in Cile.