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Il 24 aprile 2013, nella città di Savar in Bangladesh, un edificio chiamato Rana Plaza crollò portando alla morte di più di 1100 persone e al ferimento di altre 2500. L'edificio ospitava cinque diverse fabbriche di indumenti, destinati al mercato estero soprattutto del fast fashion. Segni di cedimenti strutturali, evidenziati già dal giorno precedente, furono ignorati per non interrompere la produzione di vestiti nelle fabbriche del palazzo. Le successive inchieste mostrarono il lato peggiore dell'industria tessile e le pesanti conseguenze per i lavoratori di quella che resta, ancora oggi, la principale fonte di esportazioni del Paese. Il disastro di Rana Plaza ancora oggi fa pagare il conto sulle spalle dei sopravvissuti, che devono convivere con disagi fisici e psicologici e difficoltà a rientrare nel mondo del lavoro; al contempo, le pressioni di associazioni e istituzioni internazionali hanno portato a un miglioramento delle misure di sicurezza e controlli della filiera produttiva.
Il Bangladesh e le industrie tessili
Il Bangladesh è uno dei principali produttori di filati e vestiti confezionati del mondo, soprattutto per quanto riguarda i prodotti più economici e tutto ciò che appartiene al mondo del fast fashion: ancora oggi questo settore contribuisce all'82% dell'export totale della nazione, per una somma di 46 miliardi di dollari.
Le industrie impiegano soprattutto donne, che costituiscono infatti il 60,5% della forza lavoro e sono tipicamente migranti interne, spinte nelle città alla ricerca di fonti di reddito per le famiglie delle aree rurali.
Le condizioni lavorative sono spesso precarie: nei cosiddetti "sweatshop", c'è scarsa attenzione alla sicurezza e alla gestione dei prodotti chimici utilizzati per la colorazione e la produzione dei tessuti sintetici. L'impatto sui lavoratori e sull'ambiente è quindi già normalmente alto, e il rischio di incidenti gravi sempre dietro l'angolo.
Il caso Rana Plaza
L'edificio "Rana Plaza" di Savar era stato costruito ed espanso, con la costruzione di ulteriori piani, senza i necessari permessi di costruzione: proprio nel 2013 era in fase di costruzione un nuovo livello. Il complesso ospitava uffici e una banca ai piani inferiori, mentre i piani superiori erano occupati da cinque distinte fabbriche dotate di pesanti macchinari industriali.
La mattina del 23 aprile vistose crepe nell'edificio portarono all'evacuazione dei locali. La banca e gli uffici sottostanti sospesero le attività anche il 24 aprile, ma i lavoratori delle fabbriche furono richiamati al lavoro, alcuni con la rassicurazione su controlli (mai eseguiti realmente) dalle autorità. Molti di loro si recarono a lavoro, consci del pericolo, per non perdere il "bonus di presenza" mensile dovuto a chi non registrava assenze per il mese corrente: una cifra ridotta (12-15 dollari), ma comunque importante per operaie e operai.

Nel momento del crollo, secondo diverse testimonianze dei lavoratori, alcune delle scarse vie di emergenza risultarono chiuse (per impedire ai lavoratori di assentarsi) o bloccate dall'accumulo di merce, intrappolando molti di loro nei locali in rovina.
Le condizioni precarie dell'edificio resero difficili anche i soccorsi: la ricerca di feriti e vittime durò fino al 13 maggio, con un incredibile salvataggio il 10 maggio di una donna, Reshma Begum, a più di 16 giorni dal crollo. A salvarla furono gli avanzi del cibo di alcuni colleghi deceduti e la pioggia caduta nei giorni successivi al crollo.
Le conseguenze sui sopravvissuti
Purtroppo, per i lavoratori direttamente coinvolti nel crollo del Rana Plaza e le famiglie dei caduti la situazione non è migliorata dal 2013. I primi risarcimenti, diretti a circa 3600 persone, arrivarono solamente nel 2014 con circa 650 dollari (50.000 BDT in valuta locale) per coprire le spese mediche e la perdita di reddito per invalidità. Ulteriori fondi recuperati dalle donazioni individuali e dei grandi marchi hanno permesso negli anni l'erogazione di cifre più importanti, tra i 1200 e i 6000 dollari, per le famiglie dei caduti.
Un report del 2019 testimonia come, dopo 6 anni, diversi lavoratori soffrano ancora le conseguenze della tragedia: depressione, ansia, stress traumatici e tendenze suicide si sommano alle problematiche di chi ha subito amputazioni o lesioni gravi che condizionano ancora oggi la salute fisica della persona, con problemi ai reni o ricorrenti emicranie. Oltre alle difficoltà economiche, dovute anche alla difficoltà di rientrare nel mondo del lavoro, questi individui devono fare i conti con la mancanza di strutture e professionisti in grado di prestare le necessarie cure.
Le conseguenze della tragedia sull'industria tessile del Bangladesh
L'enormità dell'evento portò la condizione dei lavoratori dell'abbigliamento nel sud-est asiatico sui giornali di tutto il mondo, più di quanto decenni di denunce sul lavoro minorile o sui frequenti incidenti avessero mai fatto.
Report successivi al disastro di organizzazioni come l'International Labour Organization (ILO) o l'International Federation for Human Rights (FIDH) dimostrarono un ridotto miglioramento delle condizioni lavorative e salariali negli sweatshop a distanza di pochi mesi, dovute alle pressioni dei clienti (grandi catene di distribuzione e marchi di moda) sulle fabbriche. Anche associazioni di consumatori e governi nazionali o federali (come l'UE) richiesero infatti un maggior impegno ai marchi di distribuzione nel controllo della filiera produttiva.

Regolamenti e accordi come il "Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh" introdotto già a maggio 2013 portarono a maggiori controlli sul territorio del Bangladesh e audit da parte dei committenti nelle fabbriche locali, per garantire il rispetto di standard lavorativi minimi. Furono inoltre semplificate le regole per la formazione e l'iscrizione a sindacati dei lavoratori, ed incrementato il budget dell'agenzia ispettiva nazionale (Department of Inspections for Factories and Establishments, DIFE).