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2 Giugno 2025
6:00

Il suffragio femminile in Italia nel 1946, tra ritardo storico e svolta democratica

Il 2 giugno 1946 le donne italiane poterono finalmente votare per le elezioni politiche (pochi mesi prima avevano votato per la prima volta alle amministrative): fu la conclusione di una battaglia iniziata subito dopo la proclamazione dell’Unità nazionale.

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Il suffragio femminile in Italia nel 1946, tra ritardo storico e svolta democratica
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In tutto il mondo, le donne hanno dovuto affrontare lunghe e complesse battaglie per conquistare il diritto di voto. A questo proposito, il nostro Paese è stato tra i più “ritardatari” e ha riconosciuto il suffragio femminile solo nel 1945. Le donne italiane hanno esercitato per la prima volta il diritto al voto l’anno successivo: in primavera alle elezioni amministrative, e il 2 giugno al referendum istituzionale e alle elezioni per la Costituente.

In precedenza, tutti i tentativi di introdurre il suffragio femminile erano andati a vuoto anche perché per molti anni i diritti elettorali erano stati limitati per tutti i cittadini, compresi gli uomini: fino al 1912 il suffragio era censitario, cioè poteva votare solo chi disponeva di un determinato reddito, e in seguito, negli anni del fascismo, il diritto al voto fu sottratto a tutti (tranne che per alcuni plebisciti non democratici).

Il suffragio femminile nel mondo

Ma come siamo arrivati alla concessione di voto alle donne? In passato, come purtroppo è ben noto, non godevano dei diritti politici: negli Stati antichi, inclusi quelli che prevedevano alcuni elementi di democrazia (come le città-stato greche e la repubblica di Roma) le donne non partecipavano alle elezioni e non potevano assumere incarichi pubblici. Addirittura, nei secoli del Medioevo, i princìpi della democrazia e del voto persero attrattiva anche in ambito maschile, fino quasi a scomparire, e l’idea del voto femminile venne del tutto meno. Il lento cammino per il riconoscimento del suffragio femminile quindi iniziò nel Settecento, grazie allo sviluppo di nuove idee filosofiche e, in particolare, del movimento dell’Illuminismo.

Tra i primi Stati a riconoscere il voto alle donne fu la Repubblica Corsa, nata in Corsica nel 1755 ed esistita fino al 1769: la Costituzione stabilì che tutti i cittadini di più di 25 anni, maschi e femmine, avrebbero partecipato a eleggere l’assemblea nazionale.

Mappa della Corsica nel 1757
Mappa della Corsica nel 1757

Sul finire del secolo, alcuni intellettuali di entrambi i sessi si dichiararono a favore del suffragio femminile, ma per molto tempo la proposta non trovò applicazioni pratiche, e non fu adottata nemmeno dai governi sorti in Francia dopo la Rivoluzione. Del resto, Anche rivoluzionari radicali come Robespierre e i giacobini concepivano la cittadinanza come un fatto unicamente maschile. In generale, nel diciannovesimo secolo numerosi Paesi si dotarono di sistemi politici liberali e democratici, ma assegnarono il diritto al voto solo ai cittadini di sesso maschile.

Con il passare degli anni, però, in molti Stati si diffuse il movimento delle “suffragette, cioè donne che si battevano per il riconoscimento del suffragio femminile. Grazie alle loro battaglie e ai cambiamenti sociali e culturali, tra fine Ottocento e inizio Novecento alcuni Paesi garantirono alle donne i diritti elettorali. Il primo Stato a riconoscerli compiutamente fu la Nuova Zelanda nel 1893, seguita dall’Australia nel 1902. In Europa, il primo Paese che garantì il suffragio femminile fu la Finlandia, nel 1906. Tra gli altri Stati, il Regno Unito ha riconosciuto il diritto delle donne a votare e a essere elette solo nel 1918, gli Stati Uniti due anni più tardi (ma in alcuni Stati dell’Unione esisteva già), e la Francia solo nel 1944.

Suffragette a New York nel 1912
Suffragette a New York nel 1912

Proposte per il voto femminile in Italia: dall’Unità al fascismo

Nel nostro Paese, il suffragio femminile si è affermato tardi. Il Regno d’Italia proclamato nel 1861, infatti, non riconobbe i diritti elettorali alle donne: nonostante il nuovo Stato fosse relativamente liberale, il diritto al voto, sia politico, sia amministrativo, era riservato unicamente ai cittadini di sesso maschile. Oltretutto, il suffragio italiano fino al 1912 era censitario, quindi votavano solo gli uomini che disponevano di un reddito superiore a una soglia prefissata, e così il dibattito sul voto femminile fu fagocitato da quello sul suffragio universale maschile. Solo pochi esponenti politici si dichiararono favorevoli a concedere i diritti elettorali anche alle donne: tra loro il deputato Salvatore Morelli e alcune attiviste, come Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff.

Anna Kuliscioff
L’attivista Anna Kuliscioff

Dopo la Prima guerra mondiale, a causa dei cambiamenti socio-politici prodotti dal conflitto, le richieste di concedere il voto alle donne divennero più numerose e trovarono seguito in diverse correnti politiche, tra le quali quella cattolica e quella socialista. Anche il movimento fascista – nato come forza politica progressista, per poi diventare un partito conservatore – nei primi anni si dichiarò favorevole a garantire alle donne il diritto al voto almeno alle elezioni amministrative. Asceso al potere, con la legge del 22 novembre 1925 il fascismo riconobbe il diritto al voto, nelle sole elezioni amministrative, ad alcune categorie di donne: quelle che disponevano di un determinato reddito, quelle che avevano superato un livello prefissato di istruzione, le parenti dei caduti in guerra e poche altre. Il diritto al voto era garantito quindi solo una minoranza della popolazione femminile.

Inoltre, le donne italiane a cui era concesso, non ebbero occasione di votare davvero: pochi mesi dopo il decreto sul voto femminile, il regime abolì del tutto le elezioni amministrative, sostituendo la figura del sindaco, che veniva eletto dai cittadini, con quella del podestà, che veniva. nominato dal re. Prometteva di concedere il diritto al voto alle donne, ma il regime fascista lo tolse anche agli uomini.

Il riconoscimento del voto alle donne

Di suffragio femminile si tornò a parlare solo dopo il crollo della dittatura fascista, avvenuto il 25 luglio 1943. Come sappiamo, dopo l’8 settembre il territorio italiano fu diviso in due distinte entità politiche: a Nord vi era la Repubblica sociale italiana, sostenuta da fascisti e tedeschi, e nel Mezzogiorno il Regno del Sud, con il governo monarchico e il sostegno militare degli angloamericani. Nel territorio della RSI si sviluppò la Resistenza e alcune Repubbliche partigiane (cioè i territori temporaneamente liberati dai partigiani nel 1944, poi riconquistati dai fascisti) riconobbero il diritto al voto alle donne.

Anche il governo del Regno del Sud discusse del suffragio femminile e il primo febbraio 1945, prima ancora della liberazione dell’Italia settentrionale, emanò un decreto che estendeva il diritto al voto alle donne. Quasi tutte le forze politiche – democristiani, comunisti, socialisti e altri – si dichiararono favorevoli alla misura. Il decreto, però, non faceva riferimento esplicito all’elettorato passivo, cioè alla possibilità che le donne potessero essere elette a cariche pubbliche. Nel 1946, in vista delle elezioni amministrative, previste, a seconda dei comuni, tra marzo e aprile, un nuovo decreto garantì alle donne i diritti elettorali attivi e passivi. Le donne votarono per la prima volta alla prima tornata delle amministrative, che ebbe luogo, in alcuni comuni, il 10 marzo 1946.

Donne al voto il 2 giugno 1946
Donne al voto il 2 giugno 1946

Il 2 giugno, gli italiani furono chiamati a votare per il referendum istituzionale, scegliendo tra repubblica e monarchia, e ad eleggere l’Assemblea costituente. Furono le prime elezioni politiche dopo la dittatura e al voto parteciparono anche le donne. Inoltre, ventuno candidate furono elette all’Assemblea: le prime deputate della nostra storia. Da allora, il suffragio femminile non è mai stato messo in discussione. Questo, però, non significa che nel nostro Paese si sia raggiunta la piena parità di genere.

Fonti
Camera dei deputati, Il voto alle donne
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