
Entro il 2025 l’Italia dovrà far rientrare oltre 235 tonnellate di scorie nucleari temporaneamente stoccate nel territorio dalla Francia e del Regno Unito, per cui abbiamo pagato dal 2001 a oggi circa 1,2 miliardi di euro. Ma dove le metteremo? Le due opzioni principali sono un deposito temporaneo oppure un Deposito Nazionale in uno dei 51 possibili siti resi noti circa un anno fa. E perché l’Italia deve prendere dei rifiuti radioattivi se non abbiamo centrali nucleari? Non è una bufala e oggi in questo video facciamo chiarezza su questo tema cosi che quando ne sentirete parlare avrete un quadro già chiaro della situazione. Per capire a fondo questa storia però dobbiamo fare un piccolo salto indietro nel tempo, più precisamente nel 1987.
La chiusura delle centrali nucleari italiane
Fino al 1987 l’Italia aveva all’attivo 4 centrali nucleari:
- quella di Trino (in provincia di Vercelli);
- di Caorso (in provincia di Piacenza);
- di Latina;
- di Garigliano (Caserta).
L’incidente di Chernobyl del 1986 però, come sapete, puntò tutti i riflettori su questi impianti, spostando l’opinione pubblica da favorevole a contraria. Nello specifico, tra l’8 e il 9 novembre 1987 venne chiesto agli italiani di partecipare a un referendum in materia di centrali nucleari e la risposta schiacciante fu il sì. Ma il sì a cosa? Alla chiusura delle centrali nucleari? In realtà no, infatti nel referendum si chiedevano 3 cose:
- Impedire allo stato di aprire nuove centrali in comuni che non si mettevano a disposizione per farlo;
- Togliere contributi agli Enti Locali che acconsentivano a costruire centrali nei loro territori;
- Vietare all’Enel di partecipare alla costruzioni di centrali nucleari all’estero – cosa che tra l’altro verrà abrogata poi nel 2004.
Quindi nel referendum non c’era la proposta di chiudere le centrali nucleari esistenti. In ogni caso, come saprete, in tutti e tre i casi vinse il sì con una percentuale media del 77,4%.
L'aspetto interessante, che forse si sa meno, è che la scelta di chiudere i quattro impianti presenti non fu per via di una legge, ma fu sostanzialmente una scelta dettata dalla preoccupazione generale diffusa tra la popolazione. Quindi si decise di cambiare radicalmente la strategia energetica e in men che non si dica iniziò a prendere il via precocemente la cosiddetta fase di decommissioning.
La fase di decommissioning
Il decommissioning, cioè dismissione, è l’ultima fase di vita di un impianto industriale – cioè quella che, in questo caso, prevede di allontanare il combustibile nucleare esausto, smantellare gli impianti e decontaminare l’area. Concentriamoci sull'allontanamento del combustibile. Il combustibile nucleare esausto – a differenza di quello che potremmo pensare – e qui attenzione, tecnicamente non è un rifiuto, perché può essere trattato chimicamente, cioè può essere “riprocessato”, per ricavare del nuovo combustibile da utilizzare. In questo processo ovviamente ci sono degli “scarti” e quindi circa il 5% del materiale di partenza diventa effettivamente un rifiuto radioattivo.
Il problema è che in Italia non esiste un sito dove trattare questo combustibile esausto e quindi già dagli anni ‘60 abbiamo preso accordi con il Regno Unito prima e con la Francia poi nel 2006 per farlo riprocessare a loro. Il combustibile recuperato con il riprocessamento, quindi quello riutilizzabile, è stato venduto nel corso degli anni ad altre compagnie che gestiscono centrali nucleari mentre il rifiuto radioattivo è stoccato da anni in Francia e Regno Unito.
Ovviamente loro non è che tengono le nostre scorie per buon cuore: sono stati stretti accordi commerciali e quindi ogni anno l’Italia paga questi due Paesi, e si stima un costo complessivo dal 2001 ad oggi di circa 1,2 miliardi di euro. Attenzione: questa cifra in realtà include tutta la gestione del combustibile irraggiato e la percentuale legata strettamente all’estero non possiamo saperla perché è un dato riservato. E nel caso ve lo steste chiedendo, a pagare questa cifra in realtà siamo noi: fino al 2022 rientrava nella voce “oneri di sistema” della bolletta della luce. Più nello specifico della “componente tariffaria A2”.
All’interno di questi contratti con Francia e Regno Unito però è presente anche un altro punto chiave, e cioè che l’Italia dovrebbe far rientrare le proprie scorie entro il 2025.
I rifiuti radioattivi da riprendere entro il 2025: le opzioni possibili
Ho detto dovrebbe perché per riprendere i rifiuti che attualmente si trovano all’estero dobbiamo necessariamente avere sul nostro territorio una struttura che abbia almeno lo stesso livello di sicurezza dei depositi nei quali si trovano ora le scorie. E se è vero che la filiera del nucleare ha già di per sé standard di sicurezza alti, in Italia questi sono ancora più stringenti. Quindi per riprenderci le scorie – e anche per non pagare ogni anno una quantità enorme di soldi ad altri Paesi – abbiamo due strade:
- Stoccare questi rifiuti radioattivi in un deposito temporaneo;
- realizzare un Deposito Nazionale e stoccarli lì.
Vediamo brevemente le due opzioni.
Deposito temporaneo
Il deposito temporaneo, come suggerisce il nome, è una struttura che ha il compito di accogliere i rifiuti per un certo quantitativo di tempo, in attesa di un deposito nazionale nel quale stoccarli in via definitiva. Si tratta di impianti già esistenti che devono essere ammodernati e dotati di tutti i sistemi di sicurezza previsti dalla normativa, così da poter garantire gli standard di sicurezza necessari per poter riprendere i rifiuti. Ad oggi forse non tutti lo sanno ma abbiamo sul territorio italiano 20 depositi temporanei di rifiuti radioattivi.
Sì, perché l’italia oggi produce rifiuti radioattivi. Ad esempio ci sono rifiuti da centri di ricerca o da ospedali che si occupano di radiomedicina, Parliamo ad esempio di diagnostica per immagini nucleari o trattamenti oncologici con radioisotopi.
Deposito Nazionale
In alternativa al deposito temporaneo c’è il Deposito Nazionale, cioè un unico sito nel quale confluirebbero tutti i rifiuti radioattivi del Paese (quindi sia quelli delle ex-centrali sia quelli prodotti oggi). Questa soluzione in realtà è già presente in vari Paesi del mondo. Tanto per fare un esempio, la Francia al momento ha due depositi in superficie ed è in costruzione un terzo deposito geologico per lo stoccaggio in profondità.
A tal proposito, facciamo chiarezza su una cosa: il deposito nazionale sarà un deposito definitivo per tutti i rifiuti a bassa attività. I rifiuti radioattivi che oggi sono all’estero però sono ad alta attività, quindi quelli, prima o poi, andranno comunque stoccati all’interno di un deposito geologico di profondità, e anche quello al momento è in fase di progettazione.
Tornando al deposito nazionale, il suo progetto esiste da anni ma non è stato ancora deciso dove costruirlo. Il problema è dunque il dove. Il punto è che attualmente sono stati identificati 51 possibili siti per realizzare il deposito – che, ribadiamolo, sarà un solo deposito, rispetto ai 20 attualmente esistenti – ma il problema è, come anticipato, che nessuna delle aree individuate vuole dare il via libera all’inizio dei lavori, quindi siamo sostanzialmente in una situazione di stallo. Quindi, riprendiamo la domanda iniziale: dove finiranno i rifiuti radioattivi italiani?

Il futuro delle scorie radioattive italiane
Difficile rispondere a questa domanda. Sicuramente rispettare la scadenza sarà un’impresa molto complicata perché entro il 2025 è difficile avere un deposito temporaneo idoneo o, ancora più complicato, avere un deposito nazionale finito e operativo. Per questo è possibile che Francia e Regno Unito trattengano i nostri rifiuti per un tempo più lungo di quello pattuito – il che come immaginerete sarà possibile solo dietro a nuovi accordi commerciali.