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5 Aprile 2024
6:00

È vero che l’anima pesa 21 grammi? L’origine del mito sul peso dell’anima

Il mito arriva da uno studio del 1907 del medico Duncan MacDougall, ma lo studio è scientificamente inattendibile, afflitto da metodologie discutibili e mai replicato. La credenza dei 21 grammi è basata su deduzioni scorrette; variazioni di peso dopo la morte sono spiegabili con processi fisiologici naturali.

A cura di Joel Baldo
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È vero che l’anima pesa 21 grammi? L’origine del mito sul peso dell’anima
L'anima pesa 21 grammi

La credenza popolare secondo cui con la morte si perderebbero 21 grammi deriva da uno studio condotto nel 1907 dal medico Duncan MacDougall, che avrebbe osservato questa perdita di peso in alcuni corpi umani dopo il trapasso. La ricerca si rivelò fallace, ma l'azzardata ipotesi di MacDougall rimase impressa nell'immaginario collettivo.

Per determinare il "peso dell’anima" dovremmo prima verificare scientificamente che l’anima esista. La perdita di qualche decina di grammi post-mortem non è un indizio, dato che questa, le poche volte in cui è stata rilevata, è facilmente attribuibile a processi fisiologici del corpo: questi si innescano con il cessare delle nostre funzioni vitali, come la perdita di fluidi corporei, il rilassamento dei muscoli che può portare all’espulsione d’aria dai polmoni e l’inizio del processo di decomposizione dei tessuti. Rimane interessante notare come la nostra curiosità si accenda quando una notizia (seppur falsa) tenta di dare materialità a qualcosa di tradizionalmente descritto come qualcosa di immateriale come l’anima.

Da dove proviene il mito del peso dell’anima e perché si dice che pesi 21 grammi

L'idea che le persone perdano esattamente 21 grammi al momento della morte è un mito che nasce da uno studio del dottor Duncan MacDougall del 1907, pubblicato sull’American Medicine. MacDougall cercava di dimostrare l'esistenza dell'anima pesando pazienti in procinto di morire, cercando di rilevare una riduzione di peso al momento del decesso. Il medico sosteneva di aver osservato una perdita di peso di circa 21 grammi in alcuni dei suoi soggetti al momento della morte, che interpretò come il peso dell'anima che lasciava il corpo.

Tuttavia, la metodologia dello studio di MacDougall era altamente discutibile, e i suoi risultati non sono mai stati replicati o accettati dalla comunità scientifica. Gli esperimenti soffrivano di numerosi problemi metodologici, inclusa la piccola dimensione del campione (sono stati effettuale le misurazioni di peso solo su sei soggetti), una bilancia industriale con scarsa sensibilità, e la mancanza di controllo per variabili che avrebbero potuto influenzare i risultati, come la perdita di liquidi corporei al momento della morte. Inoltre, solo uno dei sei soggetti analizzati riportava una diminuzione di peso di 21,3 grammi. L’esperimento è stato giudicato nel tempo totalmente inattendibile sotto vari punti di vista.

animale in decomposizione

Perdiamo davvero 21 grammi dopo la morte?

I pochi dati disponibili sulla variazione di peso post-mortem rilevano che la perdita di peso (nell’ordine dei grammi), quando rilevata, è semplicemente riconducibile a fenomeni di disidratazione e decomposizione dei tessuti della pelle e delle cavità corporee. Man mano che i tessuti molli si decompongono e si riducono, il peso del corpo diminuisce. Questo processo è gradualmente influenzato dalla velocità di decomposizione, che a sua volta è determinata da fattori ambientali, come la temperatura, l'umidità e la presenza di insetti necrofagi.

La realtà dei fatti è che in letteratura scientifica la questione non è stata indagata in profondità, proprio per la poca attrattiva della domanda: per indagare il peso dell’anima dovremmo prima accettarla come una domanda scientificamente percorribile, poi accertarci che questa esista e solo dopo, semmai, misurarne il peso.

bias cognitivi

La forza dei bias

La questione del peso dell’anima piuttosto fa luce su un altro interessante fatto: anche gli uomini di scienza non sono immuni ai bias cognitivi, ovvero alle distorsioni nei processi mentali di giudizio. Nel caso di MacDougall possiamo facilmente riscontrare un bias di conferma, che lo ha indotto a preferire, distorcendoli, i dati che sostenevano la sua tesi, rispetto ai molti che la mettevano in crisi. Il suo intento non era tanto dimostrare l’esistenza dell’anima in sé, cosa da lui giudicata scontata, quanto dimostrare che solo gli esseri umani la possedevano. Ciò lo indusse probabilmente a uccidere i cani che sottopose allo stesso esperimento, sostenendo che in questi ultimi non si era rilevata la diminuzione di peso post-mortem.

Il caso MacDougall ci insegna due cose importanti: la prima è quella che il singolo studio può dimostrarsi altamente fallibile, e che il processo verso la validità della ricerca passa per l’intera comunità scientifica, e per la prova del tempo; la seconda è che ciò che non viene accolto dalla comunità scientifica non necessariamente non viene accolto dalla cultura popolare.

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