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Il termine "cannibale" oggi radicato nel nostro vocabolario per descrivere individui spietati o crudeli e profondamente ancorato nel nostro immaginario può sembrare antico quanto l'umanità stessa. Eppure, ha una data di nascita precisa e soprattutto una storia misteriosa, fatta di fraintendimenti linguistici, manipolazioni ideologiche e giustificazioni politiche. A dispetto della sua apparente oggettività, il concetto di cannibale, ovvero "colui che mangia carne umana", è figlio di una precisa congiuntura storica: la scoperta e la conquista delle Americhe da parte degli europei.
Le origini del termine "cannibali": Colombo e i "caniba"
Quando Cristoforo Colombo approda nei Caraibi nel 1492, si trova di fronte a popolazioni con lingue, costumi e credenze completamente diverse da quelle europee. I suoi diari sono pieni di osservazioni filtrate dalla meraviglia e stupore, ma anche da un bisogno costante di classificare, catalogare e interpretare l'ignoto secondo schemi familiari. In uno dei suoi racconti, Colombo riporta che gli indigeni dell'isola di Hispaniola (l'attuale Haiti e Repubblica Domenicana) parlano con timore di un popolo guerriero chiamato Carib che si dice abitasse altre isole e praticasse il cannibalismo.
Ma è qui che avviene il primo cortocircuito: Colombo registra quel nome come Caniba o Canibal, una storpiatura che sembra mescolare il nome degli Arawak o dei Carib con la parola Khan, il titolo dei sovrani mongoli che in Europa evocava immagini di crudeltà e conquista. Da questo incontro tra lingue e immaginari distanti, nasce la parola "cannibale". Non come osservazione, ma come errore di trascrizione o, più probabilmente, come costruzione strumentale.

Ma i "cannibali" erano reali? Esistevano effettivamente pratiche di antropofagia? Alcune testimonianze archeologiche confermano che forme rituali, religiose e belliche di consumo della carne umana sono esistite in diverse culture, tra cui alcune popolazioni dell'Amazzonia, della Nuova Guinea e dell'Africa centrale. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, soprattutto nel contesto delle Americhe, le accuse di cannibalismo furono costruite ad arte: usate come giustificazione morale e giuridica per la conquista da parte degli europei.
L'invenzione del nemico
Il passo da un equivoco linguistico a una narrazione politica è breve. Nel contesto delle prime spedizioni coloniali, definire una popolazione come "cannibale" non era solo un'etichetta spaventosa: era un'accusa che portava con se profonde implicazioni giuridiche e morali. Se un gruppo era considerato dedito al cannibalismo, allora non solo poteva essere attaccato e sottomesso, ma poteva anche essere ridotto in schiavitù, secondo le leggi e la teologia dell'epoca.
Questo meccanismo si rivelò estremamente utile alla Corona spagnola: gli "indios mansueti" potevano essere evangelizzati, mentre quelli ritenuti "barbari e feroci", come i cosiddetti cannibali, potevano essere deportati o sterminati. Il cannibalismo diventa così un marchio di infamia, un modo per negare l'umanità dell'altro e giustificare la violenza coloniale. In questo senso, la parola "cannibale" non descriveva tanto un comportamento reale, quanto una funzione ideologica: costruire un nemico.
Il cannibalismo come rito
Col tempo, la figura del cannibale ha assunto contorni sempre più grotteschi e caricaturali. La letteratura e l'iconografia europea dal ‘500 in poi pullulano di immagini di selvaggi nudi che arrostiscono essere umani su grandi spiedi, di capanne adornate con ossa umane, di rituali tribali letti come pratiche di violenza e disumanizzazione. Eppure, già nel ‘700, alcuni viaggatori iniziarono a mettere in dubbio la veridicità di queste narrazioni.

Nel XX secolo, l'antropologo William Arens diede voce a queste perplessità con il suo libro "The Man-Eating Myth" (1979), in cui sosteneva che molte delle storie di cannibalismo riportate nei documenti coloniali fossero esagerazioni o pure invenzioni. Secondo Arens, le fonti storiche mancavano spesso di prove concrete. Il cannibalismo, allora, appariva più come un mito funzionale al potere coloniale che come un fatto culturale realmente diffuso.
La figura del cannibale per giustificare le violenze
La costruzione del "selvaggio mangiatore di uomini" serviva a definire, per contrasto, l'identità occidentale come civile, razionale e cristiana. Si tratta dell'eterno meccanismo dell'altro come specchio deformante, utile a rassicurare sé stessi. E così, mentre si accusavano altri popoli di praticare il cannibalismo, l'Europa era nel pieno delle guerre di religione, della caccia alle streghe, delle esecuzioni pubbliche e torture istituzionalizzate.
La figura del cannibale allora giustificava non solo la violenza, ma era una forma di proiezione: l'orrore veniva esternalizzato, attribuito all'altro. Ma in fondo, come ha notato Lévi-Strauss, il vero tabù non era il mangiare carne umana, ma il riconoscere che tutti i popoli, in modi diversi, convivono con forme di violenza differenti.
Cannibali e civili: chi sono i veri barbari
La figura del cannibale, costruita su un equivoco, è sopravvissuta fino ai giorni nostri. Nei media, nei film, nella cultura popolare, il cannibale rimane un simbolo di terrore primitivo, ma dietro questa immagine si nasconde una lunga storia di razzismo, violenza e disumanizzazione. Rimettere in discussione il significato del termine "cannibale" non sarebbe solo un esercizio linguistico o accademico ma un atto politico. Significherebbe rifiutare una narrazione imposta, aprire spazi per altre voci e verità, e riconoscere che, troppo spesso, la violenza non è venuta da chi veniva chiamato "cannibale", ma da chi ha inventato quella parola.