12 Ottobre 2021
7:00

Le 4 generazioni di centrale nucleare: quali sono le differenze e come funzionano

Nucleare sì, nucleare no, nucleare forse: in questo periodo di dibattiti e polemiche, un concetto emerso di frequente è che il nucleare di quarta generazione sarà più sicuro, produrrà meno scorie e i reattori avranno dimensioni e costi inferiori. Ma è proprio vero? Scopriamo insieme le 4 generazioni di centrale nucleare.

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A cura di Redazione
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Le 4 generazioni di centrale nucleare: quali sono le differenze e come funzionano
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Cosa distingue un reattore di quarta generazione da uno di terza? E uno di terza da uno di seconda? A che generazione appartengono i reattori attualmente operativi nel mondo?
Con questo articolo ci proponiamo di fare un po’ di chiarezza.

Iniziamo specificando che i reattori nucleari si dividono in tipologie diverse a seconda del fluido refrigerante utilizzato (acqua, acqua pesante, gas, metalli liquidi, sali fusi) e del moderatore. I materiali moderatori sono sostanze in grado di rallentare i neutroni, favorendo le fissioni (i principali moderatori sono acqua, acqua pesante e grafite; esistono anche reattori che funzionano senza moderazione che vengono detti reattori veloci). Vediamo ora cosa ha caratterizzato le diverse generazioni.

1a generazione: i prototipi

Il primo reattore nucleare della storia (Chicago-Pile 1) divenne critico alle 15:25 del 2 dicembre 1942, nei laboratori dell’Università di Chicago. "Critico" non significa che se ne perse il controllo, ma l'esatto contrario: la “criticità” è la condizione in cui la reazione a catena di fissioni nucleari è in grado di autosostenersi. La Chicago-Pile 1 era costituita da blocchi di grafite purissima tra i quali erano inseriti cilindri di uranio naturale, per un totale di 56 tonnellate.
Il reattore sviluppò una potenza di appena mezzo Watt e non era dotato né di un sistema di raffreddamento né di uno scudo anti-radiazioni (con una potenza così bassa queste misure di sicurezza non vennero ritenute necessarie). A rimuovere le barre di controllo dando inizio alla prima reazione a catena artificiale fu un italiano, Enrico Fermi.

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L’esperimento avvenne nell’ambito del progetto Manhattan, i cui scopi erano prettamente militari, ma al termine della guerra si iniziò a studiare anche la possibilità di sfruttare la fissione nucleare per produrre elettricità. I primi reattori commerciali entrarono in funzione negli anni ‘50 e ‘60, con design molto diversi tra di loro: il reattore di Shippingport (1957-1982), ad esempio, era moderato e raffreddato ad acqua pressurizzata; Dresden-1 invece era un reattore ad acqua bollente (1960-1978); il reattore Fermi-1, sul lago Erie, fu il primo prototipo di reattore refrigerato con sodio fuso, ma operò solo per quattro anni (1963-1966). In Inghilterra si diffusero i reattori a gas-grafite, detti MAGNOX: il primo, quello di Calder Hall, operò dal 1956 al 2003; l’ultimo, quello di Wylfa, è stato spento nel 2012, segnando la fine della prima generazione. I reattori di prima generazione erano poco efficienti e nella maggior parte dei casi ebbero una vita operativa breve, ma erano per lo più proof of concept: servivano, cioè, a dimostrare che il design fosse funzionale.

2a generazione: la crescita del nucleare

A partire dalla seconda metà degli anni ‘60, le potenzialità della fissione nucleare divennero chiare alla maggior parte delle potenze mondiali. Fino a metà degli anni ‘80, il nucleare visse un’epoca d’oro, in cui vennero costruiti la maggior parte dei reattori operativi ancora oggi. Ebbene sì: pensate che i reattori di seconda generazione sono stati inizialmente pensati per funzionare per 40 anni, ma molti di essi hanno ricevuto o stanno ricevendo estensioni della loro vita operativa dal momento che si trovano ancora in condizioni ottimali; la vita di alcuni reattori è stata estesa addirittura fino a 80 anni, al termine di alcuni lavori di ammodernamento che includono la sostituzione dei generatori di vapore e, in alcuni casi, la ricottura del contenitore del nocciolo per eliminare i difetti di infragilimento causati dal continuo bombardamento neutronico durante l’operatività. Tutto questo certifica che quando un lavoro viene fatto a regola d'arte non solo si mantiene sicuro e operativo, ma il suo ciclo vitale può anche durare molto più del previsto.

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Un ulteriore impulso venne dalla crisi petrolifera del ‘73, causata dalla guerra del Kippur (tra Egitto, Siria e Israele), che spinse molti Stati a cercare di differenziare la produzione di energia per non essere troppo dipendenti dal petrolio arabo. I design più diffusi della seconda generazione furono quelli ad acqua pressurizzata e quelli ad acqua bollente: nei primi, l’acqua del circuito di raffreddamento primario è mantenuta liquida grazie all’altissima pressione, ed è l’acqua del circuito secondario a trasformarsi in vapore e a far girare la turbina; nei secondi, invece, l’acqua del circuito primario va in ebollizione e il vapore va in turbina direttamente. I reattori ad acqua bollente sono più semplici da costruire, ma il fatto di avere sia acqua che vapore nel circuito primario rende più complicata l’operatività.

Oltre a queste due tipologie di reattori, vennero sviluppati tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 anche i CANDU (reattori raffreddati e moderati ad acqua pesante, tuttora largamente utilizzati in Canada), gli AGR (evoluzione dei reattori MAGNOX con raffreddamento a gas) e gli RBMK sovietici. Questi ultimi, nati negli anni ‘60, erano degli autentici mostri di efficienza ed economia: erano in grado di sostituire il combustibile senza spegnersi, operavano a bassa pressione e il design era scalabile praticamente a qualunque livello di potenza, tanto che vennero progettati modelli da 3600 MW (oggi i reattori più potenti arrivano a 1750 MW, poco meno della metà) e addirittura si ipotizzarono moduli da 2400 MW assemblabili in serie, per raggiungere potenze ancora superiori.

Purtroppo gli RBMK presentavano diverse problematiche sotto il profilo della sicurezza, come ebbero modo di scoprire gli operatori del reattore IV della centrale di Chernobyl il 26 aprile 1986.

chernobyl

3a generazione: prima la sicurezza

La fortissima eco mediatica del disastro di Chernobyl causò, tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90, l’interruzione di moltissimi programmi di sviluppo nucleare. Molti paesi decisero di rimandare la costruzione di nuovi reattori e uno optò addirittura per chiudere tutte le sue centrali nucleari ancora in attività (sì, parliamo dell’Italia). Quei pochi paesi che mantennero piani di sviluppo nucleare, concentrarono le loro ricerche soprattutto sull’aspetto della sicurezza, per evitare che un evento come Chernobyl potesse ripetersi.
La terza generazione di reattori nucleari è stata sviluppata tra la seconda metà degli anni ‘80 e i primi anni ‘2000; ulteriori modelli successivi hanno adottato la denominazione di terza generazione avanzata: a questa generazione appartengono quasi tutti i reattori oggi in costruzione nel mondo.
La terza generazione è molto simile alla seconda per quanto riguarda le tipologie di reattori e le componenti di base, ma presenta sistemi di sicurezza all’avanguardia e, soprattutto, introduce il concetto di sicurezza passiva. Cosa si intende con questa espressione? Si parla di sicurezza passiva quando l’attivazione delle misure di emergenza non dipende da alcun intervento umano, ma avviene automaticamente se i parametri di funzionamento del reattore escono dai valori prestabiliti.

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Un esempio di sicurezza passiva è dato ad esempio dai sistemi di arresto di emergenza: nei reattori moderni, le barre di controllo sono tenute sospese sopra il reattore da un sistema elettro-meccanico. In caso di blackout o guasti al sistema elettrico, il sistema rilascia automaticamente le barre di controllo le quali “piovono” nel nocciolo per semplice forza di gravità, arrestando le fissioni in pochi millesimi di secondo.
I sistemi di sicurezza nei reattori di terza generazione sono stati portati a livelli elevatissimi di affidabilità e ridondanza, cosa che inserisce i reattori moderni tra le strutture più sicure costruite dall’uomo.
Eh, già, potreste dire: e il disastro di Fukushima nel 2011? In effetti l'incidente avvenuto in Giappone ha messo nuovamente in dubbio che sia possibile costruire reattori nucleari perfettamente sicuri: occorre però ricordare che la centrale di Fukushima era molto vecchia (risalente agli anni ‘60), che il disastro è stato causato da un evento naturale di proporzioni colossali (terremoto di magnitudo 9 seguito da uno tsunami di 13 metri) e che, nonostante la fusione del nocciolo di tre reattori, le misure di contenimento hanno evitato che ci fossero vittime tra la popolazione civile.

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La volontà di realizzare impianti perfettamente sicuri ha portato a conseguenze negative sul piano dei costi: diverse centrali di terza generazione hanno infatti visto lievitare i costi e le tempistiche di realizzazione, anche a causa del fatto che l’interruzione nei piani occidentali di sviluppo nucleare ha causato una perdita di competenze verso altri settori, cosa che invece non si è verificata in paesi come Corea, Cina e Russia.
I reattori di terza generazione sono progettati per una vita operativa minima di 60 anni: si prevede che la maggior parte di essi sarà in grado di operare per oltre un secolo.

4a generazione: ritorno al futuro

La quarta generazione di reattori nucleari promette di essere quella che davvero rivoluzionerà l’industria. Alcuni progetti in realtà sono nati diversi decenni fa, ma sono stati inizialmente accantonati perché le tecnologie dell’epoca non erano adatte o perché, dopo Chernobyl, la ricerca si è concentrata sull’aspetto della sicurezza, tralasciando il resto.
Su cosa si basa la quarta generazione? Essenzialmente, sul rendere il nucleare più flessibile e adatto a esigenze diverse e complementari alla generazione di elettricità.
Ad esempio, uno dei filoni di ricerca della quarta generazione sono i reattori ad altissima temperatura (moderati a grafite e refrigerati a elio), che sono in grado di produrre idrogeno sfruttando solamente il calore di scarto; altri filoni di ricerca puntano al riciclaggio delle scorie nucleari e quindi alla chiusura del ciclo combustibile: appartengono a questa categoria i reattori refrigerati con metalli liquidi (principalmente sodio, ma anche piombo); vi sono poi i reattori a sali fusi, che a seconda della composizione chimica del refrigerante possono comportarsi come reattori veloci (quindi in grado di bruciare le scorie nucleari) o come reattori ad altissima temperatura (quindi in grado di generare calore di scarto utile per processi industriali).

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In generale, la quarta generazione punta all’abbandono dell’acqua come refrigerante, in favore di fluidi che consentano di operare a temperature più alte (quindi con rendimenti più alti) e a pressioni più basse, con combustibile riciclato e con composizioni chimiche del combustibile più efficienti (nitruri o carburi di uranio e plutonio invece dei tradizionali ossidi).
Alcuni design di quarta generazione prevedono anche la possibilità di stoccare l’eccesso di energia nei momenti di bassa domanda per poter seguire meglio il carico di rete elettrica, mentre altri ancora (ma qui la ricerca è più indietro) puntano a sfruttare il torio invece dell’uranio come combustibile.
Vi sono già diversi prototipi attivi di reattori di quarta generazione e altri saranno accesi nei prossimi anni: la diffusione commerciale, tuttavia, non è prevista prima degli anni ‘30.

La rivoluzione modulare

Contemporaneamente alla ricerca sulla terza e poi sulla quarta generazione, si è sviluppata la ricerca sui reattori nucleari di piccola taglia. Questi ultimi non sono esattamente un concetto nuovo: l’idea nasce infatti negli anni ‘50 e il primo ambito dove trova applicazione è quello della propulsione navale. Ancora oggi esistono diverse decine di vascelli a propulsione nucleare, quasi tutti militari (fanno eccezione alcune navi rompighiaccio russe), e i reattori che montano sono ovviamente molto più piccoli rispetto ai bestioni che si possono trovare in una centrale per la produzione di elettricità.

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Oggi che le tecnologie sono sufficientemente mature da consentire livelli di miniaturizzazione prima impensabili, si punta a reattori di piccola taglia anche per la produzione di energia elettrica. Una caratteristica chiave in questo senso è la modularità di questi reattori: si tratta infatti di design che possono essere fabbricati in serie e poi trasportati e installati dove serve. Questo significa ovviamente maggiore flessibilità, abbattimento dei costi grazie all’economia di scala e tempi di ritorno economico più brevi.
I reattori modulari non sono una generazione a se stante: sono invece trasversali rispetto alle generazioni. Esistono infatti sia design concettualmente simili alla terza generazione (moderati e raffreddati ad acqua, con ciclo combustibile once-through) sia modelli di quarta generazione (reattori veloci, raffreddati a elio o a sali fusi con ciclo combustibile chiuso).
Anche i reattori modulari nel mondo esistono già allo stadio di prototipo, ma alcuni modelli hanno già ricevuto l’approvazione degli enti regolatori per la produzione in serie, e si prevede possano essere disponibili nella seconda metà degli anni ‘20.
Tra i reattori modulari attualmente in funzione, vi sono anche quelli montati sull’unica centrale nucleare galleggiante al mondo: l’Akademik Lomonosov.

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