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3 Dicembre 2022
18:30

Le donne vivono davvero 4-5 anni in più degli uomini? Ecco le motivazioni

Attualmente le donne italiane vivono in media fino a 85,2 anni, più degli uomini, che invece arrivano a 80,8. Com'è possibile? Quali sono i motivi?

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Le donne vivono davvero 4-5 anni in più degli uomini? Ecco le motivazioni
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Nell’ultimo secolo si sono registrati due importanti avvenimenti per la storia dell’umanità: il (quasi) raddoppiamento dell’aspettativa di vita – che in inglese prende il nome di life span; e il fatto che questa “corsa alla sopravvivenza” sembra essere a vantaggio del genere femminile (in termini biologici). Le donne, cioè, vivono mediamente più degli uomini, anche di 4-5 anni. Ma è davvero così? E, in caso affermativo, perché?

Una tendenza comune nei Paesi sviluppati

Per capire nel dettaglio come si sia configurato questo allungamento della prospettiva di vita per il genere femminile possiamo andare a vedere i dati a disposizione, prendendo come esempio la demografia dell'Italia. Attualmente le donne italiane vivono in media fino a 85,2 anni mentre gli uomini arrivano ad 80,8.

Uno studio dei ricercatori della University of Southern California Leonard Davis School of Gerontology ha evidenziato che le differenze di longevità osservate tra i sessi siano comparse solo all’inizio del secolo scorso. Infatti, in contesti ad alta mortalità – come nell’Europa dei secoli passati, dove la speranza di vita era inferiore ai 40 anni – la longevità registrata per i due generi era molto simile: all’alta mortalità femminile a causa del parto corrispondeva un’alta mortalità maschile per cause violente e/o legate al lavoro. Non solo, uomini e donne morivano in egual misura soprattutto per malattie infettive e trasmissibili.

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Quando però queste patologie hanno iniziato a essere gradualmente debellate nel secolo successivo, hanno iniziato a emergere alcune differenze interessanti nell'aspettativa di vita, prima nascoste dal peso delle malattie infettive.

Quali fattori incidono sulla durata della vita?

Come si può immaginare, i fattori che incidono sulla sopravvivenza sono tanti e vari e, come se non bastasse, si influenzano a vicenda. Limitiamoci quindi all’analisi di alcune grandi categorie e a qualche considerazione generale.

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  • Fattori bio-genetici: gli uomini hanno un cromosoma x in meno e gli apparati riproduttivi sono diversi.

Secondo il parere degli esperti, parte del vantaggio femminile è probabilmente collegato alle particolarità genetiche e biologiche: il cromosoma sessuale maschile y è più piccolo del cromosoma x, contiene meno geni e potrebbe avere effetti protettivi meno efficienti a fronte di determinate patologie. Inoltre, la biologia riproduttiva genera patologie specifiche nei due generi biologici (tumori al seno, all’utero, alla prostata). Controverso è anche l’effetto ormonale: il testosterone avrebbe effetti sfavorevoli sulle patologie cardiovascolari degli uomini.
Vale a dire: a parità di condizioni socio-economiche e sanitarie, le persone dotate di corredo XX avrebbero – per motivi biologici – un’aspettativa di vita più elevata rispetto alle persone dotate di corredo XY.

  • Fattori bio-psicologici: aggressività e propensione al rischio.

Ad aumentare gli effetti sfavorevoli per il genere maschile è anche il testosterone, che comporta atteggiamenti aggressivi e rischiosi. Da qui deriverebbe una maggior mortalità degli uomini per suicidi, omicidi, violenze e incidenti: è tuttavia da tenere in considerazione che l’aspetto biologico si lega indissolubilmente a fattori comportamentali, sociali, e psicologici.

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  • Fattori comportamentali: alimentazione, fumo, alcol, esercizio fisico.

Gli epidemiologi si sono concentrati sul fumo e sui suoi effetti negativi (tumori e malattie cardiovascolari) per spiegare il crescente divario di sopravvivenza tra generi nel corso del Novecento. L’abitudine al fumo, almeno in precedenza, si è distinta per essere un comportamento essenzialmente maschile, e solo dopo la metà del secolo si è diffuso tra le donne, ma con un’incidenza generalmente minore.

  • Fattori sociali: ambiente di vita, attività, risorse materiali.

Infine, influenzano le cause di morte fattori quali: l’ambiente di vita e di lavoro, il livello di istruzione e la conoscenza del proprio corpo, la capacità di riconoscere i sintomi negativi e di creare abitudini salutari; la qualità dell’alimentazione e l’esercizio fisico, che possono tradursi in impatti specifici differenziati tra generi. In ultimo, il fatto che l’80% dei care givers, cioè delle persone che si prendono cura degli altri, è costituito da donne potrebbe rappresentare un motivo di attenzione delle stesse verso i rischi della vecchiaia.

Chi vive di più vive anche meglio?

In realtà, dall’ultimo Rapporto BES (che misura il Benessere Equo e Sostenibile in Italia) emerge che sebbene le donne siano più longeve degli uomini, vivono meno anni in buona salute e senza limitazioni (circa il 33% della vita di una donna è vissuto in condizioni di salute non buone, contro il 25% degli uomini).

Le donne si ammalano principalmente di osteoporosi, artrite reumatoide, calcolosi biliare, patologia tiroidea, anoressia, cefalea. Sono quindi meno interessate rispetto agli uomini da malattie ad alto potenziale di mortalità (come tumori e patologie cardiovascolari), ma presentano con maggiore frequenza alcune condizioni disabilitanti (osteoporosi, artrite reumatoide, instabilità posturale con più frequenti cadute) per cui, pur vivendo di più, hanno un periodo di vita attiva, rispetto alla vita residua, inferiore a quella degli uomini.

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Questa disparità nell'aspettativa di vita si sta in realtà sempre più contenendo, per cui si tornano a osservare tavole di mortalità sempre più simili tra i generi. Da un lato, per la partecipazione “recente” delle donne a comportamenti e stili di vita (prima esclusivi degli uomini) poco salutari (fumo, alcol), e dall’altro per un processo inverso che riguarda i “giovani” e la loro adesione a stili di vita più “sani”.

Insomma, è probabile che in futuro gli effetti di questa tendenza di comportamenti e stili di vita, possa portare ad una riduzione ancor maggiore nelle differenze nella speranza di vita alla nascita tra uomini e donne.

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