Probabilmente non ne conosciamo a fondo il funzionamento ma ne siamo circondati e, senza di loro, moltissime azioni quotidiane sarebbero impensabili. I microchip costituiscono infatti i “cervelli” di un’infinità di oggetti e dispositivi: automobili, frigoriferi, computer, televisori, smartphone. Essi, però, non riguardano solo le tecnologie di uso comune: avere la capacità di produrre microchip all’avanguardia significa possedere una risorsa strategica fondamentale, alla base del funzionamento dell’intelligenza artificiale e delle più avanzate tecnologie belliche. Per questo l’industria dei chip è tra i principali teatri di scontro tra Cina e Stati Uniti nella corsa all’egemonia mondiale.
Tra Cina e Usa, al centro c’è Taiwan
La filiera produttiva dei semiconduttori, che costituiscono gli elementi indispensabili per la fabbricazione dei microchip, è caratterizzata da processi industriali estremamente complessi. Sono quindi pochissimi i Paesi in grado di produrre chip di categoria avanzata, e la maggior parte di questi si trovano in Asia. Ben il 90%della produzione mondiale dei microchip più all’avanguardia ha luogo a Taiwan, l’isola di cui la Cina non riconosce l’indipendenza e che considera un proprio territorio.
Proprio questa enorme competenza tecnologica costituisce per il governo di Taiwan un fattore di deterrenza importantissimo: la Cina non riesce da sola a soddisfare la propria domanda interna di microchip, e un’annessione militare di Taiwan potrebbe mettere in discussione l’esistenza stessa del colosso tecnologico taiwanese, l’azienda TSMC, leader indiscusso del settore.
Per questo motivo la Cina punta all’autosufficienza: con il piano “made in China 2025”, risalente al decennio scorso, Pechino ha affermato la volontà di rendere la manifattura nazionale leader in vari ambiti, compreso quello dei chip. Nonostante i miliardi di dollari che il regime investe nella ricerca, l'obiettivo non è però ancora stato raggiunto e la Cina continua a soffrire di un ritardo tecnologico di circa 7 anni rispetto a Taiwan, dalla quale importa tutt’oggi il 30% dei microchip che utilizza in una vasta gamma di settori, compreso quello militare.
Allo stesso tempo, questo vantaggio tecnologico rende Taiwan un alleato vitale per gli Stati Uniti. Questi ultimi, dal 1990 ad oggi, hanno perso circa il 25% delle quote di mercato nella produzione di microchip, e questa carenza rappresenta nell’ottica statunitense un pericolo per la propria supremazia tecnologica e geopolitica. Già durante la presidenza Trump, infatti, è maturata l’idea che l’interdipendenza commerciale e tecnologica con il rivale cinese costituisse un rischio per la sicurezza nazionale, e oggi l’amministrazione Biden continua a mettere in campo una forte politica di decoupling – ovvero “dis-accoppiamento” – dalla Cina, in particolare sul fronte dei chip.
Con il “Chips Act” dell’agosto 2022, il governo statunitense ha infatti stanziato 39 miliardi di incentivi nell’ambito della ricerca tecnologica, prevedendo clausole molto rigide: per ricevere i finanziamenti, le aziende non devono investire in Paesi che gli USA considerano un pericolo per la sicurezza nazionale, ovvero principalmente la Cina.
Un quadro geopolitico sempre più bipolare
Il quadro generale che emerge è una corsa massiccia agli investimenti pubblici nel settore dei microchip da parte sia degli Stati Uniti che della Cina, con l’obiettivo di affrancarsi dalla reciproca interdipendenza tecnologica. Tuttavia, la produzione dei chip più potenti richiede una quantità e una complessità di processi così elevate da rendere molto difficile per un singolo Paese costruire un sistema produttivo completamente autosufficiente. La filiera è davvero globale nel senso letterale del termine.
Certo è che sul fronte dei chip si gioca il destino di molti Paesi con un tasso di sviluppo tecnologico molto avanzato, ma con enormi incertezze geopolitiche, come Taiwan, ma anche di attori chiave come l’Europa, che rischia di trovarsi schiacciata da una competizione sempre più nettamente bipolare tra Cina e Stati Uniti e che, per questo motivo ha di recente approvato un suo Chips Act europeo, uno stanziamento di un fondo da 43 miliardi di euro per ridurre la dipendenza dell'UE dai paesi esteri in tema di chip e semiconduttori.