In Italia sono attualmente custodite circa 70-90 testate atomiche statunitensi, dislocate nelle basi militari di Ghedi (BS) e Aviano (PN). È l’ultimo sviluppo di una storia che ha radici antiche. Già negli anni ’50, infatti, l’Italia avvio programmi per usare l’energia nucleare in ambito militare. In proposito, è importante ricordare che l’energia nucleare non è impiegata solo per costruire bombe atomiche, ma anche per alimentare i motori dei mezzi navali, soprattutto sottomarini e portaerei. Le forze armate italiane non potevano dotarsi di bombe atomiche, perché era vietato dal trattato di pace firmato al termine della Seconda guerra mondiale, ma avviarono programmi per costruire mezzi a propulsione nucleare. Cercarono, inoltre, di dotarsi di missili balistici capaci di trasportare testate atomiche.
L’Italia, del resto, negli anni '60 sviluppò una tecnologia all’avanguardia per l’utilizzo civile dell’energia nucleare e avrebbe avuto la possibilità di costruire bombe atomiche in tempi relativamente rapidi se la situazione internazionale lo avesse permesso. Nessun programma fu portato a termine, anche perché nel 1975 il Paese aderì al Trattato di non proliferazione nucleare. Tuttavia, sin dagli anni ’50 nella Penisola sono ospitate testate atomiche statunitensi.
Le condizioni dell'Italia all’inizio dell’era nucleare
L’era atomica ebbe inizio il 6 agosto 1945 con il bombardamento di Hiroshima da parte dell’aviazione statunitense. Dopo il bombardamento, altri Paesi, in primis l’Unione Sovietica, avviarono la progettazione bombe nucleari, ma all’Italia lo sviluppo di armi atomiche era vietato dal trattato di pace con le potenze Alleate, firmato nel 1947. Due anni più tardi il Paese aderì alla NATO e si legò strettamente agli Stati Uniti, che divennero di fatto responsabili della sua difesa. Nello stesso 1949, l’Unione Sovietica costruì le sue prime armi nucleari, seguita nel 1952 dal Regno Unito. Era ormai chiaro che una futura guerra mondiale sarebbe stata combattuta con armi nucleari. L’Italia non poteva non pensare a come proteggersi.
Le prime armi atomiche americane in Italia
Il governo italiano temeva che, in caso di guerra, la Penisola potesse essere invasa dagli eserciti del blocco sovietico e perciò riteneva necessario che si dotasse di un “deterrente” nucleare. Gli Stati Uniti dispiegarono le prime armi atomiche in Italia nel 1955: erano testate tattiche di potenza non particolarmente elevata, montate sui missili a corto raggio MGR-1 “Honest John” e MGM-5 "Corporal", che dovevano rallentare eventuali invasioni attraverso le Alpi. I missili erano controllati dai soldati americani di stanza nella Penisola.
Il governo italiano, però, intendeva partecipare al controllo delle armi atomiche e nel 1959 gli Stati Uniti acconsentirono, dispiegando nella base di Gioia del Colle (BA) i missili a medio raggio Jupiter, gestiti col sistema della doppia chiave: una era in mano alle forze armate americane, una a quelle italiane, ed erano necessarie entrambe per far partire i lanci. I missili restarono nella Penisola solo fino al 1963, quando furono rimossi in seguito ai negoziati sulla crisi di Cuba. Altre armi atomiche statunitensi saranno dislocate in Italia negli anni successivi. Il governo di Roma, però, diede avvio a anche programmi nucleari autonomi.
I progetti per l’uso militare dell’energia nucleare
Negli anni ’50 prese avvio un progetto per dotare le forze armate italiane di mezzi a propulsione nucleare. Nel 1955, quando il Paese iniziò il suo programma per la costruzione di centrali a uso civile, presso l’Accademia navale di Livorno fu istituito il Centro di applicazioni militari dell’energia nucleare (CAMEN, oggi diventato CISAP), finalizzato a sviluppare motori alimentati dall’energia atomica.
Alla fine degli anni ’50 il progetto confluì nel programma della Forza multilaterale, organizzato congiuntamente con la Francia e la Germania Ovest. Il progetto prevedeva lo sviluppo di mezzi navali a propulsione nucleare, che sarebbero stati armati con missili Polaris (capaci di trasportare armi atomiche), forniti dagli Stati Uniti.
Il progetto, però, non fu portato a termine, soprattutto perché la Francia preferì concentrare le energie su un programma autonomo e nel 1960 si dotò di bombe atomiche proprie, diventando così la quarta potenza nucleare al mondo. Il proposito di costituire la Forza multilaterale fu abbandonato definitivamente nel 1968.
Il missile Alfa
Messa da parte l’idea di costruire di mezzi a propulsione nucleare, il governo italiano diede avvio a un programma per dotarsi di missili capaci di trasportare bombe atomiche. La decisione può apparire irragionevole, visto che le forze armate non possedevano le bombe, ma era motivata dal fatto che il missile avrebbe accresciuto il peso del Paese nella Nato. Inoltre, negli anni ’70 l’Italia era diventata un “Paese soglia”: non aveva la bomba atomica, ma avrebbe potuto costruirla in tempi relativamente rapidi, grazie alle sue centrali nucleari per uso civile, la prima delle quali era entrata in funzione nel 1963.
All’inizio degli anni ’70, perciò, le forze armate progettarono un missile balistico, chiamato Alfa, che aveva un raggio di 1.600 km. Tra il 1973 e il 1976 furono effettuati con successo tre lanci di prova in Sardegna.
Il programma, però, fu abbandonato: i costi erano molto elevati e vasti settori della classe dirigente e dell’opinione pubblica si opponevano alla sua prosecuzione. Quando fu effettuato l’ultimo test, inoltre, l’Italia aveva rinunciato definitivamente a costruire bombe atomiche.
Il Trattato di non proliferazione (TNP)
Nel 1975 l’Italia aderì al Trattato di non proliferazione nucleare, firmato nel 1968 da USA, Regno Unito e URSS e, negli anni seguenti, da numerosi altri Paesi. Il Trattato prevedeva, insieme ad altre regole, che gli Stati non dotati di armi atomiche si impegnassero a non svilupparle. L’adesione italiana era stata molto sofferta, perché una parte della classe politica non voleva che il Paese rinunciasse ad avere un ruolo militare autonomo. Il Trattato, però, consentiva di ridurre i rischi di escalation militare ed era necessario per la cooperazione internazionale nell’ambito del nucleare civile.
Il nuclear sharing
L’adesione al TNP non ha impedito che in Italia continuassero a essere collocate armi atomiche statunitensi. Nel 1983, in particolare, nella Penisola furono dispiegati gli “euromissili” Pershing e Cruise, rimossi dopo quattro anno. Nel 1987, però, furono spente le centrali nucleari a suo civile, facendo venire meno ogni possibilità di costruire armi atomiche.
Oggi nel nostro Paese sono ospitate bombe atomiche americane nell’ambito del programma della Nato per il nuclear sharing (condivisione nucleare, applicato anche in altri Stati). Le bombe possono essere attivate solo con i codici posseduti dal personale militare statunitense, ma, in caso di guerra, devono essere montate su aerei del Paese ospitante. Le bombe usate per il nuclear sharing sono probabilmente di tipologia B61, con una potenza che varia da 0,3 a 340 kilotoni (per fare un confronto, la bomba che distrusse Hiroshima aveva una potenza di circa 15 kilotoni). Si stima che nelle basi di Ghedi e Aviano siano custodite tra 70 e 90 bombe B61.